domenica 30 dicembre 2012

Il mio Capodanno, lo penso volentieri con questo calabrese


So it goes #37

«Nichi Vendola», dico a Max, «mi fa venire in mente Trotckij. Nel ’17, quando abitava a New York». Ci penso, a questo, perché lo vedo concentrato su delle poesie di Brotskij. «I camerieri della trattoria dove andava a mangiare, lo odiavano, Trotckij. Perché non lasciava la mancia. ‘Mai vorrei ledere la dignità di un lavoratore’, spiegava a chi gli chiedeva ragione del comportamento insolente… Oppure, mi fa venire in mente, Nichi Vendola, che pure stimo, come uomo, e politico perfino», dico, «Pasolini, per certi versi, quando per strada intervistava i sottoproletari meridioni, gli domandava se preferivano campagna o città, e loro rispondevano ‘la città! il progresso senz’altro!’ e lui ci rimaneva male, incassava questa delusione, poveretto, ma era sincero». Max mi dice che Brotskij, sbarcato in America, subito rimase folgorato dal jukebox, distributore di perle di saggezza a buon mercato, diceva, yankee. Così. Così.
 
So, so.

venerdì 28 dicembre 2012

Sono sempre Laura Efrikian, naturalmente


Sono la fidanzata del barista


Sono la Andrews Sister bionda, quella che fa i versi con la bocca


So it goes #36

«Con la febbre, come va?» dice Zelda al telefono. «Ancora qualche linea», dico. «Cos’hai preso?». «Pastiglie di Spongata». Oggi ho dormito quindici ore. «Quindici ore, ho dormito, oggi», dico. «Avrai una pelle meravigliosa», dice Zelda. «Pura come Camay, direbbe DeLillo». «Come cosa?». «Niente». Non raccoglie la battuta. Così le racconto dell’esplosione dei fichi al caramello. «Durante il viaggio in direzione del pranzo natalizio», dico, «il vasetto che ho messo nella busta con gli altri regali…  non ci crederai, ma all’improvviso si è disintegrato». «Fantastico», dice Zelda. «…Come se ci fosse qualcosa, che dall’interno, provocando pressione, lo ha fatto saltar per aria… il caramello si è infiltrato tra i tasti del libro-pianoforte, appiccicato al corpo del peluche Winnie Pooh...». Zelda ride a crepapelle, fa il nome di Marcel Mauss.
 
So it goes, so it goes.
 

lunedì 24 dicembre 2012

So it goes #35

«Da quando sono tutti morti», dico a Zelda, «una pera dietro l’altra mi farei per sopravvivere a questi giorni». «Rimpiangi dunque l’orrenda scena familiare?». «Non ci crederai, eppure parlano, quei parenti, della piscina da allargare, del rendimento dei titoli di stato… del Capodanno a Cortina, parlano, del nuovo borsellino di Bulgari… Ma mia madre, mio padre, mai avrebbero permesso che si nominasse una piscina, durante il pranzo di Natale, mai». Così mi fa vedere, Zelda, per distrarmi dagli sciagurati pensieri, un’incisione di artista fiammingo, che è una natività nella quale vicino a Maria, è rappresentata la figura della levatrice. E in effetti è bellissima, questa presenza inconsueta, intendo, che nella faccia mi sembra assomigli alla mia panettiera, perfino. «Da quando sono tutti morti», dico a Zelda entrando in cucina, «la vigilia di Natale, penso alla mia panettiera, eh». «Datti da fare con quel branzino piuttosto», fa lei. Va bene, Zelda, lo sai che io sono la Grande Maestra Cuciniera dei branzini selvaggi. «Apro il Franciacorta?» dice Max. «Eh apriamolo», dico, da quando sono tutti morti.
 
So.

Vanessa Beecroft, White Madonna with twins, 2006


sabato 22 dicembre 2012

Sono Jane, la sceneggiatrice con la spilla appuntata al petto, bistrattata dallo scrittore fenomeno di Hollywood (da 'Gli ultimi fuochi' ovvero 'The Last Tycoon' - regia di E.Kazan - 1976 - tratto dal romanzo incompiuto di F.S. Fitzgerald)


Descrizione della mostra ‘George Grosz: gli anni di Berlino’ – disegni tra il 1912-1931 – allestita alla galleria De’ Foscherari Bologna – fino a febbraio 2013

Ci sono donne svestite dal corpo abnorme, le grosse mammelle spenzolanti, che agli uomini provocatoriamente mostrano lo sterminato sedere, e slanciando la linguaccia di fuori fanno marameo. Cleopatra è una di loro, la Regina delle Puttane (Cleopatra, 1920).
Ci sono donne vestite in accessoriati completi borghesi, stola di pelliccia al collo, piccole borsette in pelli di bestie rare: al parco spingono la carrozzina con dentro il diletto neonato (Il rampollo, 1930), scavallano le gambe nei caffè, si ritoccano le labbra, ante litteram effetto silicone (suine, in realtà), dilatano le narici, anch’esse scrofesche.
Ci sono gli uomini-che-odiano-le-donne (specie quelle che gli fanno la linguaccia, si capisce), pelati in perfetto stile Mussolini, uniforme militare con mostrine appuntate alle spalle (Agamennone, 1919): uomini che le donne, le anelano, ma quando ce le hanno davanti, strafottenti, piene di spirito, volentieri le farebbero fuori.
C’è l’arroganza del macho e la sua irrisione tutta al femminile (avete notato che i soggetti maschili di Grosz hanno sempre un sesso minuscolo?).
C’è una Notte di nozze (1923) tra sposini uomini, con uno dei due agghindato in pizzo e giarrettiera che all’altro sembra dire: «Caro?»… Spassoso! Esilarante!
C’è un pittore davanti al cavalletto, che ha poco da misurare la tela con squadra e goniometro…  tanto lì dentro, il donnone che gli fa da modello, nemmeno compresso su scala ultraridotta ci entrerà mai. Non a caso il titolo del disegno è Nuova Oggettività (1925): più oggettivo di così, in effetti.
C’è - nel senso che questi disegni ce lo ricordano in ogni istante – quella frase, ‘L’uomo non è buono ma è una bestia’, che Grosz s’inventò come titolo per una mostra ad Hannover, proprio in quegli anni; come c’è il sentore delle multe che pagò per ‘diffusione di oscenità’, per non dire delle oltre 200 opere che i nazisti gli distrussero nell’operazione di Arte Degenerata.
C’è la parola ‘Gewalt’, che sappiamo, in tedesco, ha il duplice significato di ‘autorità’ e allo stesso tempo di ‘violenza’.
C’è la regola sociale che comprime la coscienza facendo assomigliare gli esseri umani a ridicoli mammiferi in frac e che prima o poi, comprimi e comprimi ancora, finisce per liberare gli istinti più atroci (Arbeit macht frei, appunto).
No, altroché oscenità.

 

mercoledì 19 dicembre 2012

So it goes #34

«Definire la nazione come una repubblica fondata sul lavoro», dico a X che d’ora in poi chiamerò Max, «è un colpo di genio, in effetti». Mi viene in mente perché ho letto l’intervista a un fabbricante di ombrelli, un artigiano napoletano: ‘l’intelaiatura’, dice al giornalista, ‘la faccio con le stecche di balena… per produrre un ombrello come si deve’, dice, ‘è necessario passare attraverso 70 fasi di lavorazione’. «…Collegare la ricchezza di uno stato all’ingegno dei suoi cittadini, intendo», dico a Max, «dire ‘il patrimonio di tutti scaturisce dall’intelligenza dei singoli». Max, che è piuttosto di tendenza anarcoide, scuote la testa. «Gerard Depardieu, per esempio», dice, «io, quando dice che per non pagare la tassa patrimoniale, vuol lasciare la Francia, mica me la sento di dirgli niente». ‘È da quando ho quattordici anni che lavoro’, dice Gerard Depardieu, ‘è la Francia a dover qualcosa a me’. «Io penso che l’ombrellaio anche a dieci anni ha cominciato», dico. «A quattordici anni», dice Max, «io giuravo a tutti che avrei fatto l’allevatore di piccioni viaggiatori». 
 
 
So so so.

Perché non sono Gloria Gaynor? Perché?


Perché non sono Nancy Sinatra?


...O Doris Day


Perché non sono Laura Efrikian, per esempio?


martedì 18 dicembre 2012

Aneddoto quarto

Sono in coda alla cassa Coop, quando un gruppo di studenti, dall’esterno, direttamente arriva alla cassa. Girata in testa una ragazza porta la corona d’alloro del neolaureato: trucco vistoso, miniabito in lustrini rossi, calza su guêpière, tacco a spillo. Sulla schiena nuda le vedo appiccicato un cartello con la scritta ‘dottore nel buco del cul’. I compagni, dietro di lei, sono allegri. Bevono dal cartoccio del Tavernello, urlano: «Vaffancul vaffancul!», si spingono tra di loro, fanno cadere i cesti impilati del supermercato, ridono fino alle lacrime. Sono entusiasti, ma cosa vogliano dalla cassa Coop non è chiaro. Finché la ragazza con l’alloro si avvicina alla cassiera e dice: «Fammelo provare!». Indica il piccolo microfono collegato al banco, che la cassiera usa per richiamare i colleghi presenti in sala, controllare un prezzo. «Come, scusa?» fa. «E dai! Fammi cantare un pezzo!» dice la ragazza. Si è seduta nello scivolo della cassa, dove rotola la merce. «E dai!» dicono i compagni, «si è appena laureata! Falla sfogare!». In silenzio la cassiera batte sui tasti numerici. È una ragazza indiana o pakistana o bengalese, chissà. È sempre serissima. La neolaureata si sfila le scarpe, le getta per terra. «Uff!», dice, «che mortorio, ragazzi!». Le calze le sono scese alla caviglia, si sono lacerate. «In che materia ti sei laureata?» le dico. «Giurisprudenza». «Cosa vorresti fare nella vita?». «Boh», dice. «Vediamo. La cantante».
 

domenica 16 dicembre 2012

A kiss with a fist is better than none


Passa-a-Vodafone

Trascorsero alcune settimane. Nevicò. Con la neve, i turisti disertano la città. Hanno paura di raffreddarsi, scivolare sul marciapiede. Preferiscono la montagna. Vogliono prendere la seggiovia.
Di Clizia non avevo notizie. Sapevo che doveva operarsi a un ginocchio. Era caduta sul sagrato della basilica, mi aveva detto una delle Sgambate Guide Combattenti, mentre accompagnava un gruppo di ufficiali della marina. Era un martire del lavoro.
Mentre passavo sotto le due torri, un sabato, mi si avvicinò un nero con la cassetta a tracolla piena di oggetti.
«Scusa», disse,«scusa…Calendario, prendi calendario... Con Tom Cruise. George Clooney, Brad Pitt, Keanu Reeves, Russell Crow, Matt Damon… Scusa, disse, scusa… Accendino, prendi accendino. Un euro, dammi un euro… Ehi bellissima, un euro. Scusa, un euro per un panino».
Gli misi una moneta sul palmo della mano. Lui la strinse in un pugno.
«La devi smettere, di scusarti».
Si allontanò calcandosi in testa il berretto di lana a strisce.
Pensai alla sua infanzia; trascorsa nell'Africa nera. Lo vidi bambino mentre usciva dal villaggio di capanne per correre nudo, gareggiare con le zebre nella savana piatta. Poi col cappello di lana e la sciarpa al collo dentro un casermone alla periferia della città. Lo pensai seduto davanti a una stufetta elettrica, mentre mangiava carne in scatola.
Mi mossi in direzione della piazza. Era mattino presto. Ero uscita con l’idea di camminare.
Sotto il voltone del Podestà, sedeva in cerchio un gruppo di pakistani. I cappotti dai colori spenti nascondevano tuniche colorate. Più avanti, coppie di anziani, col cappello e la cravatta. Si scrutavano, si tenevano a distanza, i due nuclei, ma si capiva che si conoscevano. Osservavano due ragazzi che, negli angoli opposti del voltone, parlavano rivolti alla parete.
«Life-is-now», diceva uno.
«Passa-a-vodafone», replicava l'altro.
Provavano il fenomeno di risonanza acustica.
Imboccai via D'Azeglio. In cielo ronzava l'elicottero. A un certo punto, se ne aggiunse un altro. Facevano delle acrobazie.
Tornai a casa. Guardai il cielo dal terrazzo. Era buio e nebbioso.
[dalla Guida gastronomica]

sabato 15 dicembre 2012

So it goes #33

«Ma secondo te», dico a Z, che d’ora in poi chiamerò Zelda, «che da una settimana desideri solo nutrirmi di polenta alla valdostana liofilizzata, io che la polenta, in vita mia, sempre l’ho odiata… per te, cosa significa?». «Che hai freddo», dice Zelda, che aggiunge: «Con la salsiccia affumicata?». «No», dico, «lo troverei trash, ecco». «E secondo te», dico, «che entrando invece in una qualunque osteria, col desiderio di mangiare una domestica tagliatella, io sempre sul menù trovi la voce ‘tagliatelle alle ortiche’, per te, cosa significa?». «Non ci sono più rivoluzioni», dice Zelda, «ma solo saccheggi nei supermercati». «Eh?». «Una frase di Sebastian Matta, il pittore». «...Un piatto di sua natura dolce come la tagliatella associato all’erbaccia urticante, intendo…», dico. Zelda ride. «Così è la vita», dice.
 
So it goes, dice Kurt.

venerdì 14 dicembre 2012

Prospettiva dall’alto

Gli uomini, bisogna vederli dall’alto. Spegnevo la luce e mi mettevo alla finestra: essi neppure sospettavano che si potesse vederli da sopra. Curano la facciata, qualche volta la parte posteriore, ma tutti i loro difetti sono calcolati per spettatori d’un metro e settanta. Chi ha mai riflettuto sulla forma di un cappello duro visto da un sesto piano? Gli uomini dimenticano di difendere spalle e crani con colori e stoffe vistose, non sanno combattere questo grande nemico dell’umanità: la prospettiva dall’alto. Mi sporgevo e mi mettevo a ridere: dov’era andato a finire quel famoso «portamento eretto» di cui andavano così orgogliosi: erano spiaccicati sul marciapiede e due lunghe gambe mezzo rampanti uscivano da sotto le loro spalle.
Sul balcone d’un sesto piano: è qui che avrei dovuto passare tutta la vita.
[Jean-Paul Sartre, Il muro, Torino, Einaudi, 1964, pag.67, trad. di E.G.]
 

giovedì 13 dicembre 2012

Hai bevuto troppo

Mi sveglio nel cuore della notte con le tempie che mi pulsano. Sudo. Hai bevuto troppo, hai bevuto…
Mi scopro dal piumone. Dalla strada viene il fruscio meccanico della spazzola che pulisce l'asfalto di notte. Mi siedo sul bordo del letto, la testa pesante.
Vado in cucina. La gatta parlante mi fissa davanti la sua ciotola.
«Sarà rivoluzionario colui che riuscirà a rivoluzionare se stesso», dice la stronzetta.
«Me l’hai già detto».
 Dev’essere Simone Weil, in effetti.
Mi rimetto a letto. E quando chiudo gli occhi, mi vengono in mente delle fotografie.
Centinaia, migliaia, di fotografie. Poi la casa di una mia cugina, nella quale sono entrata. È stato dopo il funerale di mia madre. Questa cugina, che a malapena conoscevo, dopo la cerimonia funebre, mi vide persa e addolorata, chissà, mi chiese se avevo piacere di mangiare da lei. Così varcai la soglia di quella casa intasata di foto. Erano dappertutto. Nei corridoi, sui mobili, a parete, perfino sopra il gabinetto, in bagno. Tutte di membri della famiglia. Facce sorridenti, sottovetro. Facce parlanti che dicevano fiduciose: «Non sei sola al mondo! Siamo tutti con te! Siamo la tua famiglia!».
Qualcosa che mi tenga conficcata al mondo, di questo hai bisogno. Di un autoinganno. Hai bevuto troppo, penso, hai bevuto…

 

mercoledì 12 dicembre 2012

Pezzi di luna per Santa Lucia

«Posso uscire con Gigi?» chiesi.
Le luci correvano veloci e si arrampicavano su per il Monte, quel giorno. Nel carruggio, dei banchi stretti contro i portoni vendevano i dolci gommosi e i croccanti. Tutta la gente del paese era scesa giù a festeggiare. Era la festa di Santa Lucia, che fino al giorno prima, pensavo essere la santa che porta i doni con Gesù bambino. Ma poi Gigi mi ha detto che è falso, che in realtà Santa Lucia è un'invenzione degli adulti.
«Va bene», disse la sorella.
Neppure feci in tempo a mettermi il loden che Gigi mi afferrò un braccio e mi spinse fuori. A testa bassa perforava la folla che riempiva il carruggio. C’erano i bambini sulle bici, le ragazze  che ridevano, gli uomini che fumavano la pipa, lo zampognaro che soffiava fortissimo nel suo strumento al centro della via; ma Gigi non ci badava, si vedeva che teneva una direzione, come avesse in mente una meta precisa.
«Dove andiamo?» chiesi.
«Ti faccio vedere una cosa».
A metà del carruggio, svoltammo in un passaggio stretto. Lì non c'era più nessuno, era buio e con l’odore della pipì di gatto attaccata ai muri, ma in fondo si vedeva una porta illuminata. Gigi mi trascinò dentro. Era una sala dalle pareti e il soffitto bianchi, con dei piccoli fari puntati che disseminavano la luce dappertutto. Da terra si alzavano dei piedistalli di ferro. C’erano degli uomini e delle donne che guardavano le cose poste sui piedistalli. Biomorfismo vegetale, sentii sussurrare.
Mi avvicinai al piedistallo centrale. Sollevandomi in punta di piedi, scrutai l'oggetto che c'era sopra. Era grigio, screziato. Con delle sporgenze ondulate e un buco, alla base. Ci girai attorno. Lo toccai. F-i-g-u-r-a-d-i-s-t-e-s-a, lessi sulla targhetta. Era levigato come un osso.
Gigi apparve alle mie spalle.
«Cosa sono?» chiesi. Non avevo mai visto niente così infatti.
«Dei pezzi di luna», spiegò. «Si sono staccati quando gli americani sono atterrati nello spazio. Sono precipitati in mare ma i corsari li hanno ripescati».
«Ne vorrei uno», dissi.
Gigi afferrò una forma e se la infilò sotto il maglione.
Corremmo a perdifiato nei vicoli dietro il carruggio, un incastro di stradine molto strette con gli zerbini sulla porta e le pentole in fila contro i davanzali. Un portone coi campanelli arrugginiti si sprangò dietro di noi e c'inghiottì in un androne che sapeva di muffa. Le mani di Gigi mi appiccicarono i capelli alla testa, mi aprirono il primo bottone del loden. La sua lingua spugnosa mi travasò in bocca della saliva. Io non vivo sott'acqua, pensai.
[da Le descrizioni]
 

martedì 11 dicembre 2012

Descrizione di ‘Imitationofdeath’ – drammaturgia di Ricci/Forte – Teatri di Vita – Bologna – dicembre 2012

C’è il nastro giallonero, segnale di area pericolosa, che separa il palco dal pubblico, come a dirci: «Statevene lontano! Qui sopra si agitano dei pazzi!».
E sul palco ci sono sedici corpi spogliati che soffiano aria dentro dei sacchetti sul genere di quelli in dotazione sull’aereo, per raccogliere il vomito, sì… Il sacchetto salta per aria e il corpo senza respiro si contrae per terra, è scosso da convulsioni che sono più comiche che dolorose, in verità.
Ci sono gli stessi corpi che calzano scarpe foderate del medesimo nastro adesivo giallonero, che arrancando sulla loro stampella personale, si rimettono in piedi, ma le calzature hanno improbabili tacchi a trampolo, così scivolano di continuo, finché all’improvviso, oplà! ecco che si lanciano in una Mazurka sfrenata, a copie!
C’è una ragazza che racconta tutti i pompini che ha fatto nella sua giovane vita per ciascuno indicando il tempo preciso che ha impiegato a ottenere il mirabile risultato.
Poi il nastro giallonero è reciso e i corpi si presentano al cospetto del pubblico, tutti per mano, con orgoglio a mostrar gli organi genitali, e poi di nuovo in coppia, a stuzzicarsi i capezzoli, prendersi al guinzaglio per il pene, tutti con maschera individuale in dotazione.
Ogni tanto c’è l’annuncio di una fantomatica nomination agli Oscar, The winner is…
E c’è una ragazza che come in un talkshow Mediaset pone dei dolorosi perché sulla sua vita agli ‘amici’ che le fanno da pubblico, e che a turno corrono da lei, per spiattellarle nei denti una crudele risposta.
C’è l’hip hop che diventa tecno che diventa lirica che diventa musica da balera.
C’è esibizione di sé, vergogna, empatia, bisogno dell’altro, strafottenza, burla, presa per i fondelli, vita vera (nascosta) e vita finta (esibita).
Ci sono gli oggetti, i superflui patetici demenziali oggetti del desiderio di ciascuno! il bagaglio personale che ogni performer rovescia per terra, poi ci va a rovistare in mezzo, perché lì è quel che si è costruito, tutto quel che ama. «È la mia vita», ci dice mostrandoceli ad uno ad uno raggiante come un bambino.
E c’è la frase che qualcuno pronuncia, mentre trascina uno straccio a terra, tra segnali stradali e carrelli per la pulizia, che la sapevamo, ma la ripetiamo, non si sa mai: «È solo attraverso l’assenza di vita che si rappresenta la vita».
E infatti.

 

giovedì 6 dicembre 2012

Della finzione, tutti a Roma!


'Siamo quel che fingiamo di essere', dice Kurt, 'dobbiamo dunque fare attenzione a quel che fingiamo di essere'.

Volevo dire che domani, a partire dalle h:15, sarò a Roma, Salone dei piccoli e medi editori PiùLibriPiùLiberi, stand Perdisa, M05, al piano terra, davanti al bar, per firma copie.
Se siete in zona, fatevi vedere, miei diciassette lettori.

mercoledì 5 dicembre 2012

Profumo nella città di P. - Aneddoto terzo

Le profumerie aprono in gran numero, nella città di P., perché agli abitanti profumarsi piace. Esco dalla stazione, imbocco via Garibaldi e ne supero una, due, tre, quattro perfino, di profumerie, a pochi metri l’una dall’altra, e tutte che in vetrina esibiscono la famosa fragranza ‘Acqua di P.’, versione Colonia classica, Colonia assoluta, Iris nobile, Iris sublime, variante shower gel al Bergamotto di Calabria, body lotion Mirto di Panarea, in cofanetto natalizio candela aromatizzata e diffusore per l’ambiente ‘Acqua di P.’… Salgo sull’autobus e un’onda di agrume speziato mi sconquassa i sensi, poi un’altra, ventate variabili, a seconda di chi sale, dell’ingombro che occupa. A casa della sorella entro in bagno ed eccolo lì, sulla consolle, il flacone di Colonia intensa prestige marchiato‘Acqua di P.’ E di fianco, Prada infusion, Laura Biagiotti Roma, La Perla j’aime… La sorella spalanca la porta e penso che morirò per asfissia. «Qui non si respira», dico scansando l’aria. Lei mi guarda. Si sorprende. «È La Perla», dice, «non ti piace?». In corridoio incrocio mio cognato, Tom Ford Noir. «E la stazione», dico mangiando una fetta di prosciutto che, giuro, sa di Iris nobile, «quand’è che la finiscono?». «Ah, non si sa», dice la sorella, «non ci sono soldi». I lavori sono bloccati, da anni, ormai. «Non c’è una lira», dice mio cognato. Mentre succhio un cannoncino alla crema che sa di gelsomino alcolico, mi viene da pensare che tra i due fenomeni, il clamoroso buco di bilancio, intendo, le ruberie della classe dirigente, e quel profumo che intasa l’anima, ci sia una relazione. 
 

martedì 4 dicembre 2012

So it goes #32

«Il neoeletto candidato premier del Pd», dice Matteo Renzi, «d’ora in poi è corretto che sia lui, a decidere il da farsi nel partito». «Il Pd», dice Pier Luigi Bersani, «non è mica mio e di Renzi. Tutti sono chiamati a dare una mano al suo rinnovamento». Queste battute mi fanno venire in mente l’epitaffio che l’artista Marcel Duchamp fece incidere sulla sua tomba. ‘D’altra parte’, dice, ‘ sono sempre gli altri, a morire’.

So so so.

domenica 2 dicembre 2012

Racconto ucraino tradotto in italiano dal giapponese da una bambina

‘Un guanto’ (un racconto dell'Ucraina)

È una giornata freddissima, nevica silenziosamente. C'è un guanto sulla terra nel bosco.
Forse qualcuno ha fatto caderlo?
Gli animali nel bosco lo trovano uno alla volta.
Il primo è un topo. Entra dentro nel guanto e decide di rimanere lì.
Perché ci sta bene e caldo.
Dopo il topo viene una rana.
E poi una lepre, una volpe, e un lupo.
Tutti rimangono dentro nel guanto, ma è già pieno lì con cinque animali.
L'ultimo è un orso. Anche lui vuole rimanere, ma non c'è abbastanza spazio per lui. Nonostante entra lo stesso.
Mentre si spingono e si urtarono arriva un uomo con un cane.
Tutti sei animali nel guanto si spaventano e scappano via velocemente.
Rimane ancora un guanto sulla terra nel bosco, e silenzio.
Solo un guanto sulla terra nel bosco. E silenzio nel bosco.

 

sabato 1 dicembre 2012

Giorgio Gaber - La democrazia

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venerdì 30 novembre 2012

Descrizione dello Studio su ‘La classe morta’ di Tadeusz Kantor – regia di Nanni Garella – Teatro delle Moline – Bologna – novembre/dicembre 2012

Ci sono dodici vecchi, forse già cadaveri di se stessi, a gruppi di tre seduti ai banchi di scuola della loro infanzia, e ci sono i dodici fantocci di loro bambini.
C’è la Donna delle Pulizie, mastodontico orco che mette in riga la Classe, sbriga le Grandi Pulizie di Primavera, e tra un annuncio pubblicitario e uno matrimoniale, sul giornale legge dell’assassinio del principe ereditario d’Austria e così via, gli anni che si bruciano nella Grande Guerra.
C’è la stessa donna conciata in modo osceno, pornografico, la metamorfosi in baldracca… Si sa, mica è fatta di annunci matrimoniali, la vita.
C’è la Donna della Finestra, che da dietro un vetro slabbrato e sudicio guarda la Classe e dice: «Bambini, andate fuori a fare una passeggiata».
C’è la Prostituta Sonnambula che offre il capezzolo a tutti, basta aprire la zip.
C’è la Donna Madre, che per un crudele scherzo, i compagni di Classe tengono prigioniera, a gambe spalancate, in un parto grottesco, e c’è la stessa donna che culla una culla che sembra una bara e dice: «Voglio essere una coniglia».
Ci sono dodici vecchi che giocano a carte con gli annunci funebri della loro morte.
E c’è, continuo, un refrain, da organetto tipo, che dopo ventiquattr’ore ancora ce l’ho piantato in testa… Che mette la Classe in fila a marciare, un branco di soldati impasticcati, intorno ai banchi.
Ci sono dodici attori ex pazienti di ospedale psichiatrico e fin dall’inizio lo sappiamo, che le frasi che diranno sono le loro frasi, i gesti che compieranno i loro gesti.
 

giovedì 29 novembre 2012

Sotto l’indice mio sospeso

Contro il muro che separa il terrazzo dalla cucina schiaccio un gran numero di formiche. Una colonia d'insetti si è insediata negli stipiti della finestra. Le formiche sono indaffarate. In un viavai continuo attraversano la parete. Da dove provengano non è chiaro. Dal sottotetto, forse. Penetrano nella fessura trasportando frammenti di cibo. Li depositano. Ripartono. Sono le provviste per resistere all'inverno. Le ammazzo. Spazzolo via i corpi. A un certo punto vedo che una formica è rimasta attaccata al muro. È agonizzante. Tra le formiche in fuga, un’altra interrompe la sua corsa, le si ferma vicino. La raccoglie. Sotto l’indice mio sospeso compie una strana manovra, con le zampe, un movimento di sollevamento, ma circolare. Si è caricata la formica morente sul dorso. Si trascinano, perché la formica in fin di vita è più pesante della sua trasportatrice. Che procede sbandando, per trenta, quaranta, cinquanta, sessanta secondi, sul muro deserto, che le altre formiche, sapendo essere spazio di morte, hanno abbandonato. Sotto l’indice mio sospeso la formica soccorritrice si trascina, in uno sforzo disumano, una tensione concentrata nelle zampe che nessun mirmecologo mai potrà misurare, mai. Perché lo fa? Perché rischia la vita? Potrebbe scappar via, sotto l’indice mio sospeso, perché?

mercoledì 28 novembre 2012

Farsi incatenare al frigorifero

Da secoli la letteratura rosa ci fa sognare con i suoi maschi belli e ricchi, generosi e capaci di amore sublime, quindi c’è chi è rimasto un po’ spiazzato del successo epocale di una trilogia che più che essere rosa è rosa shocking, essendo la grande passione del meraviglioso giovanotto ultradotato legata a fruste, corde e catene. Su questo particolare lei sorvola, come se non contassero: ma se mentre lei viaggia sulla sua scassata automobile, le si avvicinasse un divino giovanotto che le promettesse una Ferrari se lei si lasciasse dare cento frustate in mezzo alle gambe, cosa farebbe? A letto, consenzienti, si fa quel che più piace, che sia amore o no: e siccome non tutte le donne sono contente di farsi incatenare al frigorifero, né tutti gli uomini hanno il coraggio di sculacciarle con la scopa, se due s’incontrano su questo piano, certo risultano unici l’uno per l’altra.
[Risposta a firma di Natalia Aspesi alla lettera che vi ho postato ieri]
 
 
 
 
 
 
 

lunedì 26 novembre 2012

So it goes #31

«Si può dare di più perché è dentro di noi», dice Pier Luigi Bersani. «Si può dare di più senza essere eroi», dice Matteo Renzi.


So it goes, dice Kurt.
 
 
 
 
 
 
 

sabato 24 novembre 2012

Descrizione della pre-registrazione per dare il voto alle primarie del Pd

C’è una donna che dice: «Questa non è la vostra sezione di zona che è invece quella in via S.V. che oggi è chiusa».
C’è la stessa donna che dice: «Siccome la vostra sezione di zona è chiusa, potete anche registrarvi qui».
C’è una donna che legge la mia carta d’identità e dice: «Il suo cognome, qual è?».
C’è la stessa donna che apre la mia carta d’identità e dice: «Il suo luogo di nascita, qual è?».
C’è una donna che rivolgendosi a M., sfoglia la sua carta d’identità e dice: «Il suo luogo di nascita è Bologna?». «No, Pisa», dice M. Così la donna scrive: Bologna.
C’è M. che dice: «Il mio luogo di nascita è Pisa». «Ho capito», dice la donna.
C’è una donna che invano cerca il nostro nome su una lista di nomi.
Ci sono io che dico: «Non ci può essere, il nostro nome. Perché, come lei ha detto poc’anzi, questa non è la nostra sezione di zona. È inoltre la prima volta che votiamo alle primarie del Pd».
C’è la stessa donna che dice: «La prima volta, ha detto?». «La prima», dico io.
C’è una donna che, con le nostre carte d’identità in mano, va nella stanza attigua, ritorna e dice: «Voi, l’ultima volta, alle primarie, dove avete votato?».
C’è M. che si strofina le lenti degli occhiali nel fazzoletto da naso gesto che compie quando gli sale il nervoso.
C’è la stessa donna che dice: «Controllate sul pieghevole che il vostro luogo e la data di nascita siano corretti». «Sul mio, manca il luogo», dico. «Ho capito», dice la donna. «Lei, dov’è nata?».
 

venerdì 23 novembre 2012

Non siamo dei sognatori

Io e Max ci siamo conosciuti cinque anni fa a una mostra d'arte di un suo amico artista.
Era il 18 novembre ed Emilio organizzò un trekking sul monte Adone, una cima dell'Appennino bolognese. Lungo il tragitto ogni tanto ci si fermava per una sosta. Emilio leggeva il brano tratto da un filosofo, si esibiva in una performance; un critico diceva la sua. Poi si ripartiva.
Io però non sono un tipo sportivo e dopo un'ora di cammino ero spossata. Il sentiero prese a salire in modo ripido. A un certo punto il terreno franò; mi aggrappai a un tronco. Rischiavo di cadere, se non fosse stato che Max era dietro di me e mi afferrò.  
Quell'estate vinse un soggiorno premio in Egitto. Era il terzo giorno, eravamo ad Alessandria, quando si beccò la dissenteria. Aveva la febbre alta. Entrai in bagno, quella notte. Lo vidi tremare sul water. Capii allora che non l'avrei lasciato più.
«La potenza della merda», dice Max ricordando quella volta.
Questo viaggio gli fu regalato da un consulente di Mediolanum poi inquisito per aggiotaggio al quale aveva progettato gli arredi della villa in Costa Smeralda. Max è disegnatore, in quel periodo era dipendente di un'azienda che produceva mobili di lusso. Poi si licenziò, aprì un suo studio.
«Di leccare il culo, ne ho piene le palle», dice sempre.
Io, all'epoca, non avevo ancora chiaro cosa sarei diventata. «Senza padroni», diceva invece lui. «Senza padroni», ripeteva.
Ci assomigliamo un po', penso. Non siamo dei sognatori.
[dalla Guida gastronomica]

giovedì 22 novembre 2012

Per quanto sia alto il trono

Per quanto sia alto il trono sul quale ci si siede, sempre si rimane seduti sul proprio sedere.
[M. de Montaigne]

 

mercoledì 21 novembre 2012

So it goes #30

Il giorno che Y mi dice che ha un cancro, e non operabile, io, la prima cosa che ho pensato sono state tutte le volte che io e Y ci siamo mandati a fare in culo. Ma guarda te, proprio adesso, che siamo in pace… Che razza di bastardo, ho pensato.


So it goes, dice Kurt.

martedì 20 novembre 2012

Uomini di legno

La massa degli uomini serve lo stato non come uomini, bensì come automi, con il solo corpo. Essi formano l’esercito regolare, e così pure la milizia, i secondini, i poliziotti ecc. Nella maggior parte dei casi, non vi è nessun libero esercizio né della facoltà di giudizio né del senso morale; questi uomini si mettono allo stesso livello del legno, della terra, delle pietre; anzi si potrebbero addirittura fabbricare uomini di legno che servano altrettanto bene allo scopo. Uomini del genere non incuterebbero maggior rispetto se fossero fatti di paglia o di sterco. In un certo senso hanno lo stesso valore dei cani e dei cavalli. E tuttavia, esseri simili sono comunemente ritenuti buoni cittadini.
[Henry David Thoreau, Disobbedienza civile, Milano, SE, trad. Laura Gentili - pag. 15]

lunedì 19 novembre 2012

So it goes #29 - ovvero Tintoretto e il lacrimogeno

«Dice Sartre», dico, «che lo squarcio giallo sopra il Golgota, non è che l’artista l’ha dipinto per rappresentare l’angoscia». Io e Z stiamo guardando la riproduzione di una tela del Tintoretto. «Quel giallo ‘è’ angoscia, dice Sartre», dico. «Dice, Sartre, che gli artisti - i pittori, gli scultori, gli scrittori - anziché ‘fare della poesia’ sulle cose, farebbero meglio a ‘fare’ le cose». «Infatti Tintoretto faceva dello spettacolo», dice Z che è storica dell’arte, «adesso lavorerebbe come consulente immagine per MTV, stanne certa... Oh, l’effetto lacrimogeno... quanto gli piacerebbe! In discesa, poi!» dice Z rapita. Cerca di cambiare argomento, è chiaro. «Z», dico, «lascia stare i lacrimogeni che non è il momento… Uno sputo, dice Sartre, non è la parola ‘sputo’, bensì grumo di vomito ovvero macchia slabbrata e immonda su un vetro impiastrato d'insetti, così direbbe Sartre», dico, «così».
 
 
So it goes, so it_

domenica 18 novembre 2012

L'uomo è progetto

L’ascensore si spalanca su di una corsia d’ospedale e all’improvviso i bambini sono dappertutto. Asiatici, mediorientali, esteuropei. Strizzano pupazzi, si strappano di mano un videogioco rosso, oggetti gommosi che fischiano. Si soffiano il naso per terra, si slacciano le scarpe da tennis e spiccano la rincorsa a piedi nudi. Fanno scoppiare sacchetti di patatine vuoti. Ridono come dei folli. Sono privi di equilibrio. Vanno a sbattere contro i vecchi in carrozzina. Le donne li trascinano via per mano, si chiudono dentro a stanze dove ci sono altre donne, altri bambini, come se fossero nati e in un baleno cresciuti lì dentro. Quella frase di Heidegger, ‘l'uomo è progetto, l'uomo è movimento in lontananza’, pensaci, ti dici, pensaci.



Una linea crudelmente retta

Un’indicazione viene da Blanchot:
 
 
Una delle sorprese della mascalina consiste nella sua purezza. Essa impedisce all’agitazione di finire in confusione e, così come esclude il vago disordine, distrugge anche la calma composizione dell’ordine. Le immagini che offre sono troppo pure. La loro artificiosità è dovuta a questo eccesso di purezza. Tutto è vertiginoso senza vertigine: il regresso all’infinito si opera nel secco orrore di un’implacabile precisione. L’oblio è solo la ripetizione del No che respinge il finito respingendo anche il non finito, con una potenza crudele che fa già parte della rettitudine della macchina […]. La mescalina è quasi senza spazio, fa del pensiero una linea crudelmente retta […]. Sempre un’unica direzione, e questo per l’eternità.
[Maurice Blanchot, Noi lavoriamo nelle tenebre, Novi Ligure, Edizioni Joker, 2006, pag.37 – a proposito di Henri Michaux]

venerdì 16 novembre 2012

La felicità della donna calva a metà

Sul tetto davanti al mio terrazzo si aggira una donna. Indossa un camice bianco, da infermiera. Cammina a piccoli passi, cauta tra le tegole, attenta a mantenere l'equilibrio. È calva, ma solo per metà del cranio. Sull'altra metà, la chioma rada di media lunghezza è raccolta in un codino. Che razza di bizzarria, penso, una donna calva a metà. Poi dalla finestra velux sul tetto, spunta una testa d'uomo, un braccio, la mano che stringe una parabola satellitare con sopra la scritta ‘Sky’. I due installano la parabola vicino a un comignolo spento. Alla fine del montaggio, la donna sembra soddisfatta. Seguita dall'uomo, ridiscende lungo una scaletta che penetra nel sottotetto. M’immagino che vista l'ora tarda, chieda all'uomo di restare a cena da lei e lui accetti. L’uomo ha accettato, sì. Così me li immagino, l'uomo e la donna, mentre allegri, davanti a un bicchiere di Sangiovese, si raccontano le loro rispettive vite. Poi m'immagino la donna in vestaglia, adagiata comoda comoda nella poltrona del suo salotto in stile, con le dita che sfiorano il telecomando, mentre salta da un canale tematico all'altro, di buon umore perché ha tutti quei programmi nuovi da vedere, e in più ha fatto la conoscenza di quest’uomo che le ha chiesto di andare al cinema con lui, un giorno della settimana prossima, e lei già sta pensando a quale film, quale vestito. Vado a letto. Con in testa la felicità della donna calva a metà, mi addormento di botto.

giovedì 15 novembre 2012

So it goes #28

X guarda Lilli Gruber che intervista Aldo Busi in tivù.
«La decomposizione», dice, «è d’altronde un fenomeno naturale».

 So it goes, dice Kurt.

mercoledì 14 novembre 2012

Churchill e i settantenni


La sera guardo il programma di ricerca delle persone scomparse, la più strepitosa fiction della tivù italiana. Si cerca un uomo, settantenne, che dopo aver seppellito la moglie morta di cancro, da Tradate se n'è andato in viaggio premio a Bucarest. «Si è messo in valigia una scorta di pastiglie Viagra», racconta un suo amico tradatese, «poi dev’essere uscito dalla pensione col Viagra nel borsello, dato che in camera niente han ritrovato, e per le vie di Bucarest bum! si è volatilizzato». Un dipendente del consolato italiano, allertato dal nipote, scuote la testa. «Ah, qui è pieno di puttanieri italiani», dice telecamere spente al giornalista, «tutta gente che viene per trovare conforto… per un motivo o per l’altro, si capisce, han tutti la moglie morta di cancro, si capisce, si capisce… Arrivano con le loro pastiglie, e per sempre qui rimangono. Fanno i fenomeni. Credono tutti di essere come…». «Come chi?» chiede il giornalista. «Eh, ci capiamo…» dice il dipendente. «Quello lì ci ha rovinato un’intera generazione di maschi settantenni! Lo sa cosa diceva Churchill?... ‘Mi piacciono i maiali’, diceva, ‘perché i cani ci guardano dal basso, i gatti dall’alto, i maiali invece ci trattano da pari’… A proposito, lei è sposato?» chiede al giornalista, che vai sui sessanta, in verità.
 

martedì 13 novembre 2012

So it goes #27

«Il mio modello», dico a X, «vuoi sapere chi è?». X scuote la testa. «Non è Nilde Iotti e nemmeno papa Giovanni né il cardinal Martini». «Neanche De Gasperi?» dice X, che intende sfottere, «o Martin Luther King?». «No», dico, «e neanche la blogger tunisina che pure stimo… Il mio modello è l’artista Marcel Duchamp», dico, «ma non l’opera: la sua vita proprio». «Duchamp», dico, «che dopo essersi travestito da Rrose Sélavy e tutto il resto dice ‘Ragazzi miei, tanti saluti! D’ora in poi esclusivamente al gioco degli scacchi intendo dedicarmi!’… E lo sai perché, è il mio modello?». X scuote la testa: ascolta Nichi Vendola, tutto quell’agglomerato di ‘esse’ in un solo corpo. «…Perché la vita, Duchamp con trucida maestria è riuscito a dividersela in due metà simmetriche: caos/ordine, relativo/assoluto». X ascolta Bruno Tabacci, che gli piace per come aggrotta la fronte, dice, la serietà che in quella piega di pelle umana sta tutta concentrata. «…Per dirla alla Rousseau», dico, «Duchamp capisce che è dalla passione che nasce il crimine… mentre la ragione, be’, quella sceglie sempre e senz’ombra di dubbio la giustizia… È chiaro il genio?». «La cravatta viola, Matteo Renzi, guardaci un po’», dice X, «la porta proprio come un americano…».
 
So so so.
 

venerdì 9 novembre 2012

Perfetta

Mentre mi applico l'eyeliner mi accorgo di un cambiamento in faccia. Nella guancia destra, di fianco al setto nasale, dall'alto verso il basso, diagonale, è spuntata una ruga. Più somigliante a una crepa, incisa nel tessuto poroso della pelle. E parallela alla ruga americana.
Mi è venuta vent'anni fa, la ruga americana. Mi accorsi della sua presenza un mattino d'agosto, specchiandomi nel bagno della mia famiglia. Ero appena tornata dagli Stati Uniti, dove avevo studiato all'Università.
Da principio pensai che fosse solo il lascito temporaneo dello stress da viaggio, il jet lag ecc. Pensai che riposando sarebbe scomparsa e la mia faccia sarebbe tornata quella di sempre. Invece non se n'è andata più. Si è sedimentata, è diventata un segno familiare. Si è armonizzata col resto della faccia. Più o meno profonda. Evidente a seconda dei giorni. A seconda dei pensieri.
Guardo la ruga gemella adesso. Identica, simmetrica.
Così la mia faccia è completa, penso. Ogni linea ha il suo doppio: l'opposto corrispondente.
Per un attimo mi sento perfetta.

giovedì 8 novembre 2012

So it goes #26

«Thank you», mi twitta Barack. «You’re my sunshine my only sunshine!» gli twitto. «Il ministero dei beni culturali non funziona», mi twitta Matteo, «è vittima dei burocrati». «Bisogna che la demoliamo! Tutta quella roba vecchia!... Città nuove di zecca! Lavoro ai giovani architetti!» gli twitto. «Così non ci siamo, serve governabilità», mi twitta Pier Luigi. «Qualcuno teme che governiamo noi», twitta. «Oh pretty woman», gli twitto, «walking down the street… pretty woman, the one I’d like to meet…». «You pretty woman», twitto a Pier Luigi. Mentre leggo il tweet di Laura, salta la luce.
 
So it goes, so so.

mercoledì 7 novembre 2012

So it goes #25

 «This happened because of you», mi twitta Barack, «thank you». «You’re baraccckissimo!» gli twitto. «Vorrei una legge elettorale», mi twitta Matteo, «in cui un’ora dopo, chi perde si congratula con chi vince». «Hai visto un bel mondo», gli twitto, «ma mettiti in contatto con Mitt». «Chiedo di essere creduto», mi twitta Pier Luigi, «perché vi dirò le cose come sono». «In God we trust», gli twitto. «Vai con Dio! Lascia perdere Gramsci! Uomo bianco, vai col tuo Dio!». Mentre leggo il tweet di Nichi, salta la luce.

So it goes, twitta Kurt.

 

martedì 6 novembre 2012

Il Presidente, les toilettes

Ho sempre pensato che il Presidente degli Stati Uniti potrebbe fare molto per cambiare certe idee. Se il Presidente entrasse nella toilette pubblica del Capital Building, e si lasciasse riprendere dalla telecamera della televisione mentre la pulisce, e dicesse ‘Perché no? Qualcuno deve pur farlo!’ be’, questo farebbe molto per il morale di quelle persone che fanno il meraviglioso mestiere di pulire le toilettes. Voglio dire, è una cosa meravigliosa, quella che fanno.
Il Presidente ha un potenziale talmente grande per far buona pubblicità che non è stato sfruttato. Basterebbe che un giorno si sedesse e facesse una lista di tutte quelle cose che la gente è imbarazzata a fare e che non dovrebbe essere imbarazzata a fare, e le facesse tutte in televisione.
A volte fantastico su quel che farei io se fossi il Presidente – come in televisione userei il mio tempo.
[Andy Warhol, The Philosophy of Andy Warhol, London, Penguin Books, 1975, pag.100, mia trad.]

 

Dice


lunedì 5 novembre 2012

So it goes #24

«Per esempio», dico a Z, «quelli che dicono ‘L’arte contemporanea è qualcosa che io non capisco’… Per me, non sono del tutto a posto, col cervello». Z ride. Di solito ride, quando esprimo un’opinione nella quale tutto il mio profondo convincimento pongo. «Sarebbe come», dico, «se un giorno, camminando per strada, ti cade in testa una tegola che ti tramortisce al suolo… oppure, siedi nel soggiorno del tuo appartamento, e un tornado, ma all’improvviso, proprio lì, sotto i tuoi occhi, che magari stai leggendo il giornale, irrompe sbriciolando i doppi vetri della finestra… oppure, un Suv maledetto bam! ti sfonda il portone di casa e…». «Ho capito… Ho capito», dice Z, che diventa impaziente quando entro nel dettaglio. «…Sarebbe come», dico, «se posta davanti a una di queste esperienze estreme e straordinarie, anziché con indubitabile forza prenderne atto, tu dicessi ‘E allora? Che cosa significa?’». «…Io non capisco perché quelli, gli metti davanti la ‘Veduta di Delft’, e la trovano fichissima e un capolavoro e geniale e inimitabile, e invece… una pecora imbalsamata e calata nella formalina, per dire, sembri loro schifosa e aliena». «Ma al mattino», dico, «quando escono di casa, salgono su una Fiat Panda o su un cavallo purosangue?... Che cosa credono? Che la bellezza l’orrore lo strazio l’euforia il perdono la vendetta, che la nascita e la morte siano categorie già morte e seppellite e noi dei moderni zombi senza pensiero? E tutto quel che c’è la fuori, oggi, bastardo 5 novembre 2012… cos’è allora, signori miei? gli chiederei, merda?».
 
So it goe, so it goes, dice Kurt.

domenica 4 novembre 2012

Porta

Un uomo è prigioniero in una stanza se la porta non è sbarrata e si apre dell’interno, e se a lui non viene in mente che anziché spingere bisogna tirare.
[Ludwig Wittgenstein, op.cit., pag.86]

 

 

sabato 3 novembre 2012

So it goes #23

 «Su quella frase che Macbeth dice, ‘La vita è una storia raccontata da un idiota’», dico a X, «’piena di rumore e furia’, dice, ‘che non significa niente’… be’, io dissento». «Io penso semmai che nella vita, di significato, fin troppo ce ne sia», dico. «Per dirla con una metafora gastronomica, io penso che la vita sia un po’ come uno di quei dolci natalizi dalla pasta dura», dico a X. «Che nell’impasto, di tutto ci trovi… Dai canditi ai fichi secchi, dal croccante al cioccolato… Ne mangi un pezzo, e subito lo capisci, che è stato troppo, che ti provoca la nausea, perché troppi sono gli ingredienti lì dentro concentrati e tutti ugualmente nutrienti e calorici e col loro inconfondibile sapore… Era troppo! ti dici, hai fatto una sciocchezza, sbagliato la quantità!… Addenti un gheriglio di noce, e tac! ti salta via un ponte dentale…». «E allora?» dice X. «Il fatto è», dico, «che quel che hai mangiato, e questo te lo ricordi molto bene, era davvero una prelibatezza. Era elettrico e pieno di calore». «Il fatto è», dico a X, «che di mangiarlo, prima o poi, lo sai bene che ancora ne avrai voglia. E così sarà per sempre. E non te ne importa se vomiterai, se perderai i denti… Per sempre». Io così direi a Macbeth che è la vita.
 
So, so.

venerdì 2 novembre 2012

Sensazione esilarante

Ci sono persone che non credono in niente fin dalla nascita. Ciò non toglie che tali persone agiscano, facciano qualcosa della loro vita, si occupino di qualcosa, producano qualcosa. Altre persone invece hanno il vizio di credere: i doveri si concretizzano davanti ai loro occhi in ideali da realizzare.
Se un bel giorno costoro non credono più […], ecco che riscoprono quel ‘nulla’ che per altri è stato sempre, invece, così ‘naturale’.
La scoperta del ‘nulla’ per essi è però una novità che implica altre cose: implica cioè non solo il proseguire dell’azione, dell’intervento, dell’operosità (intesi ora non più come Doveri ma come atti gratuiti) ma anche la sensazione esilarante che tutto ciò non sia che un gioco.
[Pier Paolo Pasolini, op. cit., pag.423]

 

giovedì 1 novembre 2012

Descrizione di ‘Operetta burlesca’ Studio n.1 – regia di Emma Dante – allestita ai Teatri di Vita – Bologna – 31 ottobre e il primo novembre ‘12

C’è un panzuto imbonitore siciliano riciclato in cantante neomelodico che vuol convincere il pubblico a blaterare l’assurdo jingle di sottofondo allo spettacolo, la-la-la-la – oltre che a schioccare le dita… che finisce col dimenare le chiappe in un minicostume degno di Josephine Baker.
C’è una coppia di gommosi, ipercinetici ballerini argentini lanciati in passi di tango che - non si sa bene come - si trasformano nei salti di un rock&roll acrobatico.
C’è uno spogliarello da manuale, di quelli con la sedia, la guepiere: da manuale, sì.
E c’è la soubrette transessuale Stellina, la Prima Donna dello sgangherato show, che con emozione ci racconta il suo grande amore: di quel Principe Azzurro («‘Principe’ di nome, ‘Azzurro’ di cognome», dice), il commesso del calzaturificio, bello come un dio, che un giorno entra nella sua vita, e mai più ne esce.
C’è la voce stravolta di Stellina che racconta di quando Principe le dice, e senza troppi complimenti, che tiene moglie e figli. E quelle parole: «Be’? Le creature, le posso crescere io! Saremo una vera famiglia!», quel suo disgraziato sogno di normalità.
E da quel momento, la voce non la smette più, di raccontare: lo scontro, senza l’ombra della vergogna, con l’ignara moglie del suo amante; il timbro che – durante la tragicomica confessione - subisce un’inaspettata metamorfosi, e all’improvviso vomita la rabbia, la potenza del cuore maschile.
L’impurità, viene da pensare, può essere amore puro.
 

 

mercoledì 31 ottobre 2012

So it goes #22

«Ma il mazzo di rucola», dice Z leggendo lo scontrino fiscale, «mi vuoi dire che l’hai pagato due euro e mezzo?». «Sì», dico. «Dove l’hai comprato?... In gioielleria, per caso?». «Dal fruttivendolo all’angolo con via Clavature», dico. «Il negozio dove fa spesa Montezemolo, intendi?» dice lei. «Può darsi. Io, i prezzi, in generale, non me li ricordo. Dato che sono espressi in numeri… E i numeri, io, non li memorizzo. Non c’è niente da fare, niente». «E gli anni che eri fidanzata con quel matematico siciliano?» dice Z, che oggi si vede lontano un chilometro che è in vena di polemica. «Si era laureato alla Normale di Pisa, infatti», dico. «E sai cosa m’ha detto un giorno?». «No», dice Z. «Sono innamorato della tua mente, m’ha detto. Del tuo deserto numerico». «Così t’ha detto?» dice Z. «Precisamente», dico. Z scuote la testa. Ripone delicatamente la rucola sul lavandino.
 
So it goes, dice Kurt.

martedì 30 ottobre 2012

Pony express

Max mi raccontò quella sera dei primi anni trascorsi nella città. Di quando era arrivato, proveniente dal Sud, in cerca di lavoro. Abitava in una stanza. Subito lavorò come pony express, nome in codice: Orso.
«Ci chiamavamo tutti con nomi di animale», disse.
Raccontò che una domenica aveva invitato a cena un ragazzo anche lui pony express, un trentino che chiamavano Lupo. Per l'occasione aveva comprato del gulasch in lattina. Poi si accorsero che il fornello elettrico era guasto. Lupo suggerì di scaldare la carne con una candela. Prese fuoco. Fecero appena in tempo a gettarla dalla finestra.
Raccontò che una volta aveva invitato un ucraino, Pulce.
«Orso», si era raccomandato, «io mangio solo salsiccia, e di puro maiale».
Max raccontò che gliela servì con una strisciata di senape. Di come Pulce si leccasse le dita, alla fine.
Raccontò di quando invitò un ragazzo di Lecce. Gli preparò delle omelette alla marmellata.
«Orso, io non sopporto la marmellata», gli disse Canguro, così si chiamava, «se non ti dispiace, ho portato delle cozze sottovuoto», gli disse. Farcirono le omelette con le cozze.
«Di quei ragazzi», disse Max, «non ho mai saputo il vero nome».
[dalla Guida gastronomica]

 

lunedì 29 ottobre 2012

So it goes #21

«Berlusconi», dico a Z, «fa un po’ venire in mente Sexy Sadie». «SEXY SADIE… OOH, WHAT HAVE YOU DONE», canto a squarciagola, «YOU MADE FOOL OF EVERYONE». «Sexy Sadie ooh you broke the rules… just a smile would lighten everything», canto. «E poi… ma te la ricordi quell’altra fase di Genet?» dico a Z. «No», fa lei. «…Quando Genet diceva ‘I fatti sono quel che racconto, ma la loro interpretazione è quel che oggi sono diventato’. E ‘fanculo tutti!». «Sexy Sadie… however big you think you are», canto, «however big you think you are».
 
 
So so so.
 
 
 
 

domenica 28 ottobre 2012

Innocente volontà di potere

Io suppongo che come è idealistico l’odio per il potere, sia idealistico anche il desiderio per il potere. Ed è forse superficiale condannare, per elezione e senza discussione, il desiderio del potere. La forma di idealismo che fa vivere quella città tutta uguale di ricchi, o almeno di borghesi agiati, con le loro gerarchie interne, le clientele di snob, di emarginati tollerati, ecc. su su fino ai veri potenti, direttori di banche, grandi dirigenti di azienda, inamovibili burocrati, ministri, è una naturale  e – devo pur scriverlo – innocente volontà di potere.
Coloro che – come nel mio caso – odiano il potere, in un momento o l’altro della loro vita, in un momento inaugurale, l’hanno amato, perché ciò è naturale, e perché è ciò che provoca poi un odio giustificato, oltre che quasi religioso!
[Pier Paolo Pasolini, Petrolio, Milano, Mondadori, 2009, pag. 262]
 
 

sabato 27 ottobre 2012

Una gatta filosofa

Bevo un bicchiere di vino. Accendo la tivù.
«I clandestini scatenano la rivolta», dice il giornalista del tigì, «brucia il cpa di Lampedusa. Un centinaio di tunisini ha tentato di sfondare i cancelli, ammassato materassi e cuscini nelle stanze e poi appiccato le fiamme».
«Lo sai che cosa dice Heidegger dell'uomo?» dice Cleofe, che, come già ho detto, è una gatta parlante.
Butto giù un sorso di vino. Non lo so.
«Che è infinitamente di più di quel che sarebbe se lo si riducesse ad essere quello che è», dice.
Sul video scorre un'immagine vibrante, aerea, ripresa da un elicottero sferzato dal vento. L'ex caserma dei carabinieri dell'isola, convertita in centro d'accoglienza, divorata dal fuoco: uno scheletro fumante e senza tetto.
«Preferisco la definizione di Kant», dico. «L'uomo come fine dell'azione... la trovi ingenua?».
Cleofe emette un piccolo ringhio.
«Provaci, a metterla in pratica», dice.
Guardo le immagini dei clandestini in tumulto. La loro protesta. Quella capacità di protesta, penso, io, non ce l'ho.
«Hai presente der gemeine Mann?» dice Cleofe.
«No».
«L'uomo comune, come se lo immagina Sigmund Freud. Colui che pur non appartenendo all'élite intellettuale, comunque si sforza di analizzare i meccanismi della sua personale alienazione».
La osservo, la gattaccia.
Proprio a me doveva capitare una gatta filosofa? Non poteva capitarmi una gatta cuoca? Governante? Ricamatrice? Ma proprio a me?

venerdì 26 ottobre 2012

So it goes #20

«Quando uno scrittore dice ‘La mia opera parte dall’autobiografia’», dico a X, «sempre mi viene in mente Genet che diceva ‘Scrivo perché mi si ami’». «Perché Genet, ladro pederasta e truffatore», dico, «proprio per la sua anima schifosa, voleva essere amato». «’La sola idea di un’opera letteraria’, dice Genet, ‘mi fa alzare le spalle’. Cioè, della letteratura in sé, a Genet, non gliene fregava niente. «No?» dice X. «No», dico. «E penso che i veri scrittori, quel che li distingue dagli altri, è che le presentazioni dei loro libri vanno deserte perché nella vita, quelli scrittori sono proprio soli come dei cani. E semmai un giorno questi veri scrittori dovessero riempire le sale e finalmente crogiolarsi nell’affetto degli ammiratori amanti e amici conquistati, significa che nel frattempo, sono forse diventati dei brillanti letterati, ma in virtù di quel nuovo affetto ricevuto, di sicuro hanno cessato di essere dei veri scrittori». Così io penso, così.
 
 
So, so, so: so it goes, dice Kurt.
 

giovedì 25 ottobre 2012

Vita inemotiva


Tu [Natalia Ginzburg n.d.a.] difendi sempre, nei tuoi libri, i valori primitivi. Difendi le passioni, il calore animale, la famiglia, la tana, il focolare domestico, tutte cose di cui la nostra vita, secondo te, non potrà mai fare a meno. Ma è proprio così? Noi stiamo vivendo un’età di grande trasformazione, stiamo vivendo il congedo dell’uomo dalla natura. Il nostro legame con la natura si sta spezzando. Ci stiamo incamminando verso un mondo quasi esclusivamente mentale. Fatto di conoscenza, non di finta scienza. Perché immaginarcelo peggiore di quello feroce e brutale da cui proveniamo? Sono morti gli dèi; ora muoiono gli animali, le foreste, i mari, i fiumi. Vivremo di emozioni e di piaceri mentali. Le nostre gioie saranno forse più pallide, la nostra vita più inemotiva. Ma forse anche meno traumatica, meno feroce, meno sanguinaria, meno crudele. Se l’uomo uccide, violenta e inquina la natura, può darsi che lo faccia perché non ne può più della sua natura primitiva, e ubbidisce a un progetto che non sappiamo.
[Cesare Garboli, Genitori e figli, conversazione con Natalia Ginzburg, in 'Ricordi tristi e civili', Torino, Einaudi, 2001, pag. 48]
 

mercoledì 24 ottobre 2012

Indietro dalla realtà

La domanda reale è: perché questa diacronia tra la cronaca e l’universo mentale di chi si occupa di problemi politici e sociali? E perché, all’interno della cronaca, questa «divisione dei fenomeni»?
Ciò che avviene «fuori dal Palazzo» è qualitativamente, cioè storicamente, diverso da ciò che avviene «dentro il Palazzo»: è infinitamente più nuovo, spaventosamente più avanzato.
Ecco perché i potenti che si muovono «dentro il Palazzo», e anche coloro che li descrivono, si muovono come atroci, ridicoli, pupazzeschi idoli mortuari. In quanto potenti essi sono già morti, perché ciò che «faceva» la loro potenza – ossia un certo modo di essere del popolo italiano – non c’è più: il loro vivere è dunque un sussultare burattinesco. […]
È vero che i potenti sono stati lasciati indietro dalla realtà con addosso, come una ridicola maschera, il loro potere clerico-fascista, ma anche gli uomini dell’opposizione sono stati lasciati indietro dalla realtà con addosso, come ridicola maschera, il loro progressismo e la loro tolleranza.
[Pier Paolo Pasolini, Lettere luterane, Torino, Einaudi, 2003, pgg.95-96]