martedì 30 aprile 2013
domenica 28 aprile 2013
Non date retta
Le comunità virtuali non
costruiscono nulla. Non ti resta niente in mano. Gli uomini sono animali fatti
per danzare. Quant’è bello alzarsi, uscire di casa e fare qualcosa. Siamo qui
sulla terra per andare in giro a cazzeggiare. Non date retta a chi dice
altrimenti.
[Kurt Vonnegut, op.cit., p.57]
sabato 27 aprile 2013
Descrizione dell’opera dell’artista Nam June Paik, esposta nella mostra ‘Nam June Paik in Italia’ – Galleria civica di Modena – fino al 2 giugno 2013
Stiamo parlando di un buffo
coreano che nel giorno delle sue esequie, alle quali presero parte artisti come
Merce Cunningham, Yoko Ono, Christo – celebrate il 3 febbraio del 2006, nella
prestigiosa cappella funeraria Frank E. Campbell, sulla Madison Avenue, NY –
lasciò scritto che voleva fossero distribuite delle forbici individuali, con le
quali ciascun partecipante agevolmente potesse tagliuzzare la cravatta del
proprio vicino. Così il caro estinto già aveva operato, nel lontano 1960, in
occasione di una celebre performance, durante la quale ‘aggredì’ il musicista John Cage, non
prima di avergli fatto lo shampoo.
TV Candle, 1975 |
Stiamo parlando di un tizio che
nel 1965, fece esibire una violoncellista in topless - sì, proprio così! -con due
microvideo spenzolanti agganciati ai seni, sul palco del Carnegie Hall, a un
certo punto sostituendosi al violoncello stesso (Sextronic Cello, 1965). E l’esecuzione fu interrotta, naturalmente,
Charlotte Moorman in fretta e furia fatta rivestire, accompagnata in questura.
«Forse voi siete una precorritrice!» le disse il giudice, «forse tra dieci anni,
queste cose, al Carnegie hall, si potranno fare!». Non ci conterei.
Parliamo dell’artista che è stato l'autore del
primo programma televisivo intercontinentale, in simultanea trasmesso in
Europa, America, Asia, una diretta nel primo giorno dell’anno (Good Morning Mr. Orwell, 1984). E quando
gli domandarono: «Perché la Tv?», Nam June Paik candidamente rispose: «Sono un
povero uomo, provengo da un povero paese, dunque sempre devo tenere presente il
mio pubblico». Olè.
Lo si nomina come artista visivo,
Nam June Paik, ma si fa per dire, dato che al pari dei suoi colleghi del
movimento Fluxus, di pennelli, colori e tele, se ne infischia. Studia musica al
Conservatorio, piuttosto, tra il Giappone e l’Europa. Parte dalla dodecafonia di Arnold
Schoenberg, e va a finire coi sintetizzatori della musica elettronica; in
Germania entra nell’équipe di Karl-Heinz Stockhausen. Sembra a caccia di scandalo, e invece
è uno che in realtà fa sul serio, eccome.
In questa mostra, che assolutamente
vi consiglio, si vuol far vedere il legame che ebbe con il nostro paese, che
l’artista diceva di amare soprattutto in virtù del suo amore per la musica
d’opera. «Adoro l’opera lirica», diceva, «perché in essa, come nella musica
elettronica, c’è tutto: musica, spazio, movimento».
Maria Callas, 1995 |
Camminando da una sala all’altra,
vengono in mente le riflessioni che Nam June Paik sempre s'è fatto sul
rapporto Oriente/Occidente (Young Buddha
on Duratrans Bed, 1989-1992), laico/ religioso. Sacro e Profano, per esempio, 1993, mostra una provocante signorina
nuda che ammicca facendo capolino oltre due monitor televisivi, mentre sopra di
lei, nella stessa posa, se ne sta distesa una serafica divinità orientale.
A proposito di sacro e profano, tengo
a ricordarvi che a questo burlone performer, armato della prima telecamera
lanciata sul mercato dalla Sony, venne l’idea di filmare il traffico di New
York, nei convulsi giorni che accompagnarono la visita di papa Paolo VI (Café Gogo, 1965). Per quelli di voi ai
quali interessano i primati, corre leggenda che si tratti del primo video
d’arte della storia.
Le opere dedicate all’Italia,
alla sua geografia turistica, sono dei piccoli monitor dalle cornici
scintillanti, oltremodo trash, incastonate di pietre, con l’antenna da insetto
meccanico ficcata in cima. Contengono simboli orientali, figurine di personaggi
famosi, stereotipi. C’è una Venere botticelliana, per esempio, la conchiglia-piedistallo
che le si apre sotto i piedi, il golfo di Napoli sullo sfondo, che ha la faccia
del segretario di stato americano (Hillary
Clinton, 1997).
A proposito di Hillary, bisogna registrare un aneddoto, davvero spassoso. Nel 1998, Nam June Paik – già famoso, Leone d’oro alla Biennale del 1993 - in occasione di una cena ufficiale, fu invitato dai Clinton, alla Casa Bianca. L’artista, che si muoveva all’epoca in carrozzella, decise di presenziare alla cerimonia servendosi di un deambulatore, che riteneva ausilio motorio più dignitoso e consono alla formalità della situation. Si racconta che all’improvviso, mentre faceva per stringere la mano alla First Lady, i pantaloni gli scivolarono giù, scesero fino alle ginocchia, e che sotto fosse praticamente nudo. La Clinton andò su tutte le furie, of course. Un affronto politico? Il re è nudo, appunto? Una fatalità? Non s’è mai saputo.
A proposito di Hillary, bisogna registrare un aneddoto, davvero spassoso. Nel 1998, Nam June Paik – già famoso, Leone d’oro alla Biennale del 1993 - in occasione di una cena ufficiale, fu invitato dai Clinton, alla Casa Bianca. L’artista, che si muoveva all’epoca in carrozzella, decise di presenziare alla cerimonia servendosi di un deambulatore, che riteneva ausilio motorio più dignitoso e consono alla formalità della situation. Si racconta che all’improvviso, mentre faceva per stringere la mano alla First Lady, i pantaloni gli scivolarono giù, scesero fino alle ginocchia, e che sotto fosse praticamente nudo. La Clinton andò su tutte le furie, of course. Un affronto politico? Il re è nudo, appunto? Una fatalità? Non s’è mai saputo.
E il bello sta proprio lì: con
Nam June Paik, non si sa mai dove si va a parare.
Eppure l’opera che io preferisco
di questo artista provocatore, e che ho ritrovato esposta, è uno dei lavori più
delicati e poetici nei quali, ragionando di arte contemporanea, mai mi sia
imbattuta. È una scatola televisiva, niente poco di più che un involucro vuoto,
di un vecchio apparecchio degli anni Sessanta, che al suo interno custodisce
un’esile candela accesa (For Philip,
1975). Philip Corner, il pianista al quale l’artista la regalò, racconta che
quel giorno, ricevendolo nel suo loft newyorkese, Nam June Paik gli indicò una
gran massa di carcasse televisive, che teneva ammucchiate in un angolo, e gli disse: «Scegline una. Poi,
a casa, mettici dentro una candela». «Che tipo di candela?» disse Corner. «Una
qualsiasi», disse Nam, «basta che sia accesa».
Ecco, per me, in quel ‘basta che
sia accesa’, c’è il cuore di ciò che Nam June Paik ci ha voluto dire.
venerdì 26 aprile 2013
giovedì 25 aprile 2013
Gli altri dormono [Intervista a Beppe Fenoglio di Gino Nebiolo, "Gazzetta del Popolo", 9 ottobre 1962]
Noi dormiamo sotto il peso dei nostri difetti provinciali e ci siamo talmente abituati che non li sentiamo più. La borghesia albese aveva, prima del fascismo, un peso ed un senso. Il fascismo l'ha distrutta o assorbita. Avevamo quattro o cinque giornali che provocavano epiche risse, persino duelli con le loro vivacissime competizioni elettorali. Chi se li ricorda?
Prima della guerra, quando ero studente, vi erano insegnanti che distribuivano cultura anche fuori dalle aule scolastiche. Il prof. Petronio, oggi ordinario di cattedra universitaria, ci insegnò a leggere Proust, Svevo, Melville. Il prof. Chiodi, massimo studioso di Heidegger in Italia, anch'egli oggi ordinario di cattedra universitaria, sapeva parlare ai giovani a scuola e nelle sale dei caffè e spalancava menti e coscienza.
Quanti di noi andammo partigiani perché sapevamo che c'era anche lui? E quanti gli devono la formazione intellettuale e civica? Ora gli altri dormono. Penso che leggano poco, perché, bene o male, chi legge, come dice Fichte, deve alla fine restituire, cioè produrre: qui non si produce nulla ed i giovani, per quel che ne so, preferiscono il pocherino, le fiacche conversazioni di paese, i film del sabato sera.
Sanno che scrivo, è già molto. Forse qualcuno compra i miei libri, ma non ho mai conosciuto un giovane che mi dicesse con franchezza: ho letto il tuo libro, non mi è piaciuto, discorriamone insieme. Li leggono perché mi conoscono, per una curiosità banale, per ragioni sottoculturali. In tanti anni che scrivo di Alba e su Alba e in Alba i soli contatti con i giovani sono stati: di una ragazza che mi ha sottoposto il suo diario intimo, un po' indecente, e di un ragazzo che voleva consigli su certe poesie. È poco? Ma Alba, ottusa da un lungo sonno, distratta dai barbagli del "boom" poco può dare di più».
Prima della guerra, quando ero studente, vi erano insegnanti che distribuivano cultura anche fuori dalle aule scolastiche. Il prof. Petronio, oggi ordinario di cattedra universitaria, ci insegnò a leggere Proust, Svevo, Melville. Il prof. Chiodi, massimo studioso di Heidegger in Italia, anch'egli oggi ordinario di cattedra universitaria, sapeva parlare ai giovani a scuola e nelle sale dei caffè e spalancava menti e coscienza.
Quanti di noi andammo partigiani perché sapevamo che c'era anche lui? E quanti gli devono la formazione intellettuale e civica? Ora gli altri dormono. Penso che leggano poco, perché, bene o male, chi legge, come dice Fichte, deve alla fine restituire, cioè produrre: qui non si produce nulla ed i giovani, per quel che ne so, preferiscono il pocherino, le fiacche conversazioni di paese, i film del sabato sera.
Sanno che scrivo, è già molto. Forse qualcuno compra i miei libri, ma non ho mai conosciuto un giovane che mi dicesse con franchezza: ho letto il tuo libro, non mi è piaciuto, discorriamone insieme. Li leggono perché mi conoscono, per una curiosità banale, per ragioni sottoculturali. In tanti anni che scrivo di Alba e su Alba e in Alba i soli contatti con i giovani sono stati: di una ragazza che mi ha sottoposto il suo diario intimo, un po' indecente, e di un ragazzo che voleva consigli su certe poesie. È poco? Ma Alba, ottusa da un lungo sonno, distratta dai barbagli del "boom" poco può dare di più».
So it goes #48
«Enrico Letta, a momenti compie
cinquant’anni», dico, «giovane non è». Sono con Zelda. Davanti al memoriale dei
partigiani, in piazza del Nettuno, si compie la celebrazione. I bersaglieri
strombettano l’inno d’Italia, ci sono le
corone d’alloro, le spillette col tricolore. «…Che Napolitano dica Affido il
mandato di formare il nuovo governo a Enrico Letta perché, benché sia giovane,
già ha maturato una buona esperienza politica… Ti sembra una frase appropriata?»
dico. «…Come se essere giovani e agli esordi fosse un difetto». Zelda non risponde. Guarda gli
studenti barbuti che si mischiano agli ex partigiani. «Quelli sono giovani»,
dice. Da quando ha rotto con Scott è ringiovanita; Rayban nuovi di zecca,
chioma ramata che le luccica al sole, è perfino abbronzata. «Io penso che il
paese semmai di una mente lucida e sgombra abbia bisogno», dico, «mica di un
artigiano che rimetta insieme dei cocci di politica». «Sto leggendo dei racconti
di Maupassant», dice lei, «in francese. Molto belli». Dice che le piacerebbe andare a
Venezia, a vedere la mostra di Manet, che vorrebbe trasferirsi a Ginevra, dato
che lì da un anno studia. Cioè, dei miei discorsi arrabbiati, se ne infischia. Ma essere
evasivi, Zelda, è facile da farsi, facile da dirsi, penso.
So so so.
mercoledì 24 aprile 2013
Io, sono la calamita umana, donna
stick. Un turista americano mi placca, appena entro in piazza. «Quella bandiera
lì, cos’è?» dice. Indica lo stendardo con sfondo azzurro, le stelle gialle disposte
a corona, dell’Europa unita. Si affloscia sopra l’ingresso del palazzo comunale.
«L’Unione europea», dico, «Francia, Germania, Spagna… presente?». Lui scuote la
testa. «Prenda fuori la moneta da un euro, da quel suo wallet Gucci fake», gli dico, io, calamita umana, donna stick. «Le
vede le stellette che ci sono sopra, in rilievo?». Sticky, sticky. «Le
stellette», dice, «già la bandiera americana le contiene...». Lo guardo. Cioè,
vuole dirmi, questo yankee di merda, che noi europei siamo dei fottuti imitatori,
a me, lo dice, la calamita umana dei turisti, donna stick. Non mi resta così
che prenderlo per il braccio. Sticky sticky calamitarlo sotto il memoriale dei
partigiani, la parete tappezzata dalle loro foto ritratto, black and white d'annata. «Le vede, quelle
faccette?» dico. «Pensi che la città di Bologna, i ragazzini là, l’han liberata
perfino quattro giorni prima che arrivassero gli americani… È chiaro?». «Oh, absolutely»,
dice lo yankee riponendo l'Euro nel wallet. «Absolutely cosa?» dico io, sempre più sticky sticky, calamita umana, donna stick.
martedì 9 aprile 2013
So it goes #47
«No no no», dico a Zelda, e mi
prendo la testa tra le mani. «Cos’hai?» fa lei. «Cos’ho? Ma lo senti Franceschini?
E Renzi? E Veltroni? E Fassina, lo vedi?». «Fassina», dice Zelda. Così mi tappo
le orecchie. «Non pronunciare quel nome», dico. «F-A-S-S-I-N-A», scandisce
Zelda apposta crudele. «No no no», dico, e mi prendo la testa tra le mani. Mi
metto in piedi davanti alla tivù spenta. Decido che faccio un appello alla
redazione del TG3: «Dico, con quel filmato di Bersani che su se stesso si gira,
occhi bassi guarda da una parte poi dall’altra, come a dire E adesso dove vado?
col sigaro che gli spenzola dalle labbra, la volete smettere? Eh? Basta così?».
«FASSINA», dice Zelda. No no no.
So it goes, dice Kurt.
giovedì 4 aprile 2013
Voglio scusarmi, e così lo sapete. Mi ha preso la passione di rovinare le fotografie altrui. Costeggio la fontana del Nettuno, per esempio, vedo uno straniero che sta per scattare una foto alla sua bella, in posa davanti al Gigante, e subito eccomi lì: devio la traiettoria del mio cammino, mi precipito nel suo campo visivo, proprio mentre scatta, e quella foto è per sempre perduta, lost. Peccato, e così lo sapete. Oppure, sono davanti alla statua di Luigi Galvani, lo scienziato che mostra la ranocchia spiattellata sul libro, quella che ha usato per i suoi esperimenti, suppongo, sono lì, magari per caso, e subito la riconosco, in arrivo dal bar Zanarini: è una ragazza bionda, nordeuropea, con dei bei denti bianchi che ridono. Alza le braccia, sceglie l’inquadratura: vuole fotografare lo scienziato, farlo vivere immortale nel suo Ipad. «Può spostare?» dice. «No», dico. Lei sorride. Non capisce. Peccato, e così lo sapete. La ragazza si sposta. Ma io mi sposto con lei, vado sotto al piedistallo, perfino. Lost, lost, lost. Non vi sopporto, voi fotografi di statue e monumenti celebrativi, che spingete moglie, fratello, bambino, a fianco del prezioso oggetto storico, vestiti in braghe corte, col cappellino da baseball, in canotta, la borsetta griffata a tracolla. Io non vi sopporto. Sciuperò la vostra foto. Voglio scusarmi, e così lo sapete.
mercoledì 3 aprile 2013
martedì 2 aprile 2013
Anche a calci
La sedia da spostare
a) Secondo me quella sedia lì va
spostata.
b) Anche secondo me quella sedia
lì va spostata.
a) Facile dirlo quando l’han
detto gli altri.
b) Se è per questo sono anni che
lo dico e nessuno mi ascolta.
a) Da un’approfondita analisi
storica e sociologica vien fuori che quella sedia pesa dai nove ai dieci chili.
b) Non sono d’accordo. Dai
sondaggi il 2% degli intervistati dice che pesa dai cinque ai sei chili, il 3%
dai sei ai sette chili, il 95% non lo so e non me ne frega niente. Basta che la
spostiate.
a) Secondo me per spostarla ci
vorrebbe qualcuno che la prendesse delicatamente per la spalliera e la mettesse
da un’altra parte.
b) Eccesso di garantismo. Al
punto in cui siamo è assolutamente necessario prenderla in qualsiasi modo.
Anche a calci.
a) A calci? Ma questo è
profondamente antidemocratico e anticostituzionale.
b) Se è così cambiamo la
costituzione.
a) Non è una cosa che si può fare
da un giorno all’altro. Nel frattempo propongo di indire un referendum.
b) Non si troveranno mai 500.000
firme per spostare una sedia.
a) E allora non c’è scelta:
elezioni anticipate.
b) No, le elezioni oggi no.
Sarebbe troppo grave per il paese. Forse domani.
a) Rimane il problema urgente
della sedia da spostare.
b) Su questo sono d’accordo. Può
essere un punto d’incontro.
a) Parliamone.
b) Parliamone.
[Giorgio Gaber, estratto dal libretto dello spettacolo teatrale 'E pensare che c'era il pensiero']
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