martedì 26 novembre 2013

Descrizione dello spettacolo ‘Orchidee’ - regia di Pippo Delbono - Arena del Sole - Bologna - 21/23 novembre 2013

C’è la frase, scritta da Jack Kerouac, Questo mondo mi fa schifo ma non c’è un altro mondo nel quale andare…
C’è il Nerone imperatore agghindato come da copione dell’opera di Mascagni. «Nerone», ci dice Pippo Delbono, che siede in fondo alla platea, nell’oscurità, con la sua giacchetta gialla, «non fu destituito dal trono a causa dello scandaloso comportamento libertino, bensì obbligato a soccombere dal senato romano, al quale si era opposto». Ma dài.
C’è papa Ratzinger che davanti alle acrobazie ginniche della squadra di giovani e muscolosi atleti, si addormenta (oppure dorme già). C’è l’ex consigliere Nicole Minetti, prima tutta chiappe in pedana poi nell’intervista che dice: «Prima di tutto io sono una donna». Ma pensa.
Questo mondo mi fa schifo ma non c’è un altro mondo nel quale andare… No.
C’è invece il braccio esanime ed esangue di una madre deposta sul letto di morte, le ultime parole pronunciate (quali saranno le nostre, eh? Ve lo siete chiesto mai?), e poi le parole che ha pronunciato quando era in vita, che hanno fatto ridere e imbarazzato, perché mettevano in piazza i fatti della famiglia, ché li raccontava al panettiere… (Pippo Delbono, ti capisco: succedeva anche a me. Mia madre se ne usciva sul balcone e parlava con la vicina del balcone dall’altro lato della strada!)
Questo mondo mi fa schifo ma non c’è un altro mondo nel quale andare… Così.
E di fronte alla morte - ditemi un po’ voi, che forse lo sapete - delle massime dei filosofi, degli slogan poetici, letterari, che cosa diavolo ce ne facciamo? Ditemelo su.
«Avete qualcosa in contrario», dice il regista, «a che io vi racconti questi fatti, di me?... Chi lo stabilisce, che a teatro ci si debba divertire?». E per non scontentare del tutto il pubblico, spedisce in platea un attore, a offrir due pasticcini.
«Il teatro, dice Bergman», ci dice Delbono, «sono due persone che s’incontrano. Tutto il resto è secondario». È proprio così.
Finché sul palco si materializza un’attrice, che ci confessa che questo regista, il teatro lo annoia proprio… e così, anziché recitar la sua parte, lei ha avuto l’idea di organizzarci una bella asta: la messa in vendita dei quadri di quella sua parente defunta… «Per tirar su un po’ di soldi», dice, «di questi tempi». La vita è fatta di opportunità, relazioni, si capisce.
Questo mondo mi fa schifo ma non c’è un altro mondo nel quale andare…
Perché c’è la vita vera e la vita fasulla. Carne vs. plastica.
Le orchidee, per esempio, sono un perfetto caso di ‘imitation of life’. Per capire se un’orchidea è autentica, è infatti necessario toccarla. Conviene allora - così dice una signora alla sua amica, ci racconta il regista – tenerne in salotto due esemplari: uno coi petali, l’altro finto.
Ma allora, direte voi, che cosa aspettiamo a scatenare la rivoluzione?
Su questo punto, Jean-Paul Marat taglia corto: «A che serve fare la rivoluzione?» dice, «siamo solo dei pezzenti». Tzàc. Oppure «pachidermi», dice Pippo Delbono, «animali molto soli». Molto, dice.
E il suo ballo sul palco, squinternato, sbilenco, è solitudine, follia pura. E tra i due, la follia pura è la dimensione più sana, credetemi.
E gli attori di questa stramba compagnia… il sordomuto Bobò, per esempio, gettato sul palco dopo quarant’anni di manicomio… be’, quelli siamo noi. Bobò c’est moi.
Questo mondo mi fa schifo ma non c’è un altro mondo nel quale andare… Non c’è, no.
È corretta la frase di Anaïs Nin, quando dice: «L’artista si fa artista perché ha bisogno di crearsi un mondo in cui vivere, un luogo nel quale ricrearsi, quando è spossato dalla vita». Esatto, Anaïs.
 
 
 
 

domenica 24 novembre 2013

Francesco Petrarca - 'E lubrico sperar su per le scale' feat. Lucio Dalla - 'Disperato erotico stomp'

E vidi a qual servaggio, et a qual morte,
a quale strazio va chi s’innamora:
errori e sogni et imagini smorte
eran d’intorno a l’arco triumfale,
e false opinioni in su le porte,
e lubrico sperar su per le scale,
e dannoso guadagno ed util danno,
e gradi ove più scende chi più sale;
stanco riposo e riposato affanno,
chiaro disnore e gloria oscura e nigra,
perfida lealtate e fido inganno,
sollicito furor e ragion pigra,
carcer ove si vèn per strade aperte,
onde per strette a gran pena si migra,
ratte scese a l’entrare, a l’uscir erte,
dentro confusion turbida e mischia
di certe doglie e d’allegrezze incerte.
[Francesco Petrarca, op.cit., pp.190-192]

 

sabato 23 novembre 2013

Le mani armate, e gli occhi avolti in fasce


Or so come da sé ‘l cor si disgiunge,
e come sa far pace, guerra, e tregua,
e coprir suo dolor quand’altri il punge;
e so come in un punto si dilegua
e poi si sparge per le guance il sangue,
se paura e vergogna avèn che ‘l segua;
so come sta tra’ fiori ascoso l’angue,
come sempre tra due si vegghia e dorme,
come senza languir si more e langue;
so de la mia nemica cercar l’orma,
e temer di trovarla, e so in qual guisa
l’amante ne l’amato si transforme;
so tra lunghi sospiri e brevi risa
stato, voglia, color cangiare spesso,
viver stando dal cor l’alma divisa;
so mille volte il dì ingannar me stesso;
so, seguendo ‘l mio foco ovunque e’ fugge,
arder da lunge et agghiacciar da presso;
so come Amor sovra la mente rugge,
e come ogni ragione indi discaccia,
e so in quante maniere il cor si strugge;
so di che poco canape s’allaccia
un’anima gentil, quand’ella è sola,
e non v’è chi per lei difesa faccia;
so come Amor saetta, e come vola,
e so com’or minaccia et or percote,
come ruba per forza e come invola,
e come sono instabili sue rote,
le mani armate, e gli occhi avolti in fasce,
suo promesse di fé come son vòte;
come nell’ossa il suo foco si pasce,
e ne le vene vive occulta piaga,
onde morte e palese incendio nasce.
[Francesco Petrarca, Triumphi, Milano, Mursia, pp.156-161]

 

giovedì 17 ottobre 2013

Le emozioni, soprattutto se estreme, è bene esternarle, dicono. Trasformarle in suoni, musica, parole. E' così che le emozioni si sublimano, dicono. Chi lo dice? Gli psicologi, certo. Naturalmente. Be', la vostra cazzuta sublimazione, cari psicologi, per me, ve la potete infilare su per il culo. Del mio dolore, io non voglio che rimanga alcuna traccia.

lunedì 30 settembre 2013

Descrizione del Pdl

Sono classificati tra i mammiferi coprofagi, i maiali. Quelli neri, in particolare, allevati in Asia, si nutrono esclusivamente di escrementi umani. La loro carne, apprezzatissima, è servita laggiù in ristorantini tipici specializzati.

domenica 29 settembre 2013

Descrizione del Pd

Sono animali, i bradipi, che del fatto che sono morti, se ne accorgono dieci minuti dopo che non ci sono più.

venerdì 2 agosto 2013

Aneddoto sesto

 
«In una giornata così», disse un giorno il critico teatrale Harold Hobson, che con Samuel Beckett partecipava a un match di cricket, «è bello essere al mondo». «Non esageriamo», disse Beckett. 

martedì 30 luglio 2013

Gallagher e il tortellino

«Il giornalista gastronomico che dovrai intrattenere sul tortellino è italiano», m’informò Clizia.
«Uhm».
«Un torinese».
«E perché non si arrangia da solo?».
«Mika, mi raccomando. Fammi fare bella figura. Chissà mai che non ci mandi qualche collega danaroso. Incantalo coi tuoi begli occhioni. Fallo sognare». Aggiunse che aspettava l'arrivo di un truccatore brasiliano, ospite nel suo bed and breakfast, in città per la rassegna 'Cosmoprof', la fiera dei cosmetici e profumi.
Il torinese alloggiava al Grand Hotel, l'ingresso che si affaccia sulla strada dello shopping compulsivo.
C'è un flusso di gente, che nei pomeriggi festivi percorre via dell'Indipendenza; in giù diretto alla stazione e indietro di nuovo puntando verso il centro. E poi da capo, un movimento incessante, fino al tramonto. Le vetrine assorbono il fiato di questi passeggiatori, le mani che ci si appoggiano sopra per riconoscere un'offerta speciale.
Una folla che forma un'etnia speciale; massicce catene stampate sul petto degli uomini e minigonne inguinali a fasciare il sedere delle donne. Dove abitino, gli shopper del weekend, dove vadano, quando lasciano la città, non si sa. Max dice che salgono su dai tombini, nelle notti di plenilunio e laggiù fanno ritorno. Li chiama 'i mostri del ciclo di Cthulhu'.
Il rettilineo delle vetrine si interrompe in corrispondenza del Grand Hotel.
Quando arrivai, quel pomeriggio, la passerella che accompagna la scalinata dell'ingresso era affollata da una calca disumana. Fotografi, telecamere, giornalisti, gruppi di adolescenti con indosso la maglietta degli Oasis. I componenti della rockband dormivano là.
Esibii il mio tesserino da guida. Con un inchino, i due uscieri in livrea mossero le pesanti porte vetrate dagli infissi oro.
Entrando nella hall, subito si è investiti da una vampata di aria coloniale. Il lampadario in vetro di Murano getta sull'ambiente una luce sfavillante. Uno scalone ondulato, attraversato dal tappeto di velluto rosso, come se ne vedono in certe scenografie hollywoodiane degli anni Quaranta, sale su ai piani alti. Ma di Rita Hayword, neanche l'ombra. Vomita a terra coppie di obesi turisti americani, in shorts e ciabatte da spiaggia.
Mi sedetti in una delle poltroncine decorate con le iniziali GH, addossate alla parete. Sulla consolle, c'è uno strano soprammobile. Una forma a metà tra vaso e cuore umano, sorretta da un piedistallo. Al centro del tavolo in stile Impero, troneggia un bouquet di orchidee finte al profumo di rosa.
La sala era deserta, tranne che per quattro energumeni, i bicipiti modellati sotto la maglietta siglata STAFF, che stazionavano di fianco all'ascensore e ai piedi dello scalone, di guardia.
Mentre aspettavo il giornalista, sfilai una delle dieci copie gratuite di un quotidiano nazionale e m'immersi nella lettura. Lessi dello sciopero generale proclamato dai sindacati come protesta contro lo sgravio fiscale che la nuova finanziaria riserva ai redditi alti. Finché l'ascensore si aprì e apparve il torinese.
«Scusi il ritardo», disse porgendomi la mano, grassoccia ed esangue. «Quando si viaggia, sono sempre infinite noie. L'inferno sono gli altri, direbbe Sartre».
Non si trattava del solito ragazzotto. Era un uomo sui cinquanta, doppiopetto, baffetti modellati in una sagoma stile Risorgimento. Mi disse subito che non intendeva schiodarsi dall'hotel.
«Detesto camminare, mi perdoni, la fatica fisica. Mi muovo solo per dedicarmi a interviste eccellenti: Paul Bocuse, Heinz Beck, Gualtiero Marchesi. Quando davvero ne vale la pena, mi capisce». Si guardò intorno con aria da padrone. «Ci possiamo senz'altro accomodare laggiù».
Indicava la scrivania laccata che affianca lo scalone.
«…La metto subito al corrente dei miei piani, signorina. Vede, sto scrivendo un libro sull'origine e storia sociale del tortellino, gloria gastronomica della vostra meravigliosa città. Un volume che andrà in stampa a fine anno, per un grande editore».
Fui presa da un attacco di panico. Cara Mika, mi dissi, prima o poi sarebbe successo, e in questo caso, prima del previsto. Che nonostante le assicurazioni di Clizia, l'esperto di gastronomia sarebbe arrivato. E lo avrebbe scoperto, che di suinicoltura intingoli e gourmet, non ne sai un'acca. Che sei una guida gastronomica sì: ma per soldi.
Mi sentii ad un bivio. Alla fine di una carriera mai voluta, costruita sulla menzogna. Fissai la parete davanti. Sopra è dipinta una scena boschereccia, una donna a cavallo e il suo cane. Pensai che la donna si fosse persa.
In quel momento, in cima alle scale, apparve un Gallagher: faccia smunta dietro enormi lenti azzurrine, chioma divisa in ciuffi rigidi sulla nuca. Lo seguivano due bionde dalle labbra sporgenti. Appena si venne a trovare lungo la direttrice dell'ingresso, da fuori si levarono le urla: «Liam! You are the best!».
«Il popolino», disse il giornalista scuotendo la testa. «Ha ciò che si merita, non trova?».
Il Gallagher si tolse gli occhiali da sole. Nel suo sguardo c'era una fredda indifferenza.
«Le rockstar dei giorni nostri», commentò il torinese, «hanno la sfortuna, o la fortuna, a seconda dei punti di vista, di essere sempre la copia di qualcuno. L'originale, purtroppo, è scomparso da tempo... D'altra parte», proseguì, «a chi interessa più l'originale? Mette spavento. E' qualcosa di incomprensibile. Agita le menti. Genera inquietudine… Ecco, io voglio da lei proprio ciò che quel signore laggiù rappresenta. Che lei si concentri, e mi dia lo stereotipo”.
Lo guardai incredula. Lo stereotipo?
«Sì, un resoconto dettagliato delle sciocchezze, corbellerie che circolano sul tortellino e nel mondo ne alimentano la fama. Ciò che la gente vuole sentirsi dire su questa specialità. Per trovarla unica, amarla, scovargli una sua sublime poeticità».
Fantastico, pensai, vuole da me un cumulo di balle.
«Mi sono spiegato?» domandò.
«Certo», dissi, «certamente».
Mi sentii a mio agio, di nuovo nel mio ruolo.
E neppure occorre inventare. L'aneddoto esiste già. La faccenda dell'ombelico, intendo. Una storiella goliardico-erotica, che tutti gli abitanti della città conoscono.
Parla di un giovane garzone di bottega che viene un giorno spedito dal fornaio suo padrone a prendere la farina che serve per impastare il pane.
Il giornalista cominciò a stenografare, euforico: «Benissimo! Vedo che io e lei ci intendiamo alla perfezione!».
«Questo ragazzo si mette in cammino», raccontai, «e raggiunta la casa del fornaio, va dritto nel magazzino, a caccia dei sacchi di farina».
«A piedi», disse il giornalista.
«Be', sì».
«E d'altra parte, in quale altro modo poteva spostarsi un povero figliolo di campagna? Mica c'erano gli Intercity».
«Quando si trova nel magazzino, il ragazzo cerca e non trova nulla»,  proseguii.
«Disorganizzazione».
«Come?».
«Vada pure avanti. Per la sua strada che io la seguo».
«Il giovane sale dunque al primo piano, dove è l'abitazione del fornaio».
In quel momento, girando lo sguardo verso l'uscita, vidi qualcosa precipitare ruzzolando nella hall dell'hotel, planare fin sotto la reception, istantaneo come un bolide. Era un corpo femminile. Una ragazza, piccola e rotonda, t-shirt con sopra scritto OASIS TOUR e sotto, nomi di città europee, date.
«Liam!» strillò agganciando i jeans del Gallagher. «Liam! I love you!».  Li fece scendere e scoprì una striscia di boxer.
Lui, che non era Liam, ma il Gallagher sbagliato, fece un giro su se stesso, pettinandosi. Con mossa istantanea, uno degli energumeni si avvicinò e la staccò. Il Gallagher si tolse la felpa e la lanciò nelle mani di lei.
«Next time I will give you my pants, babe», che la prossima volta, le avrebbe smollato le mutande.
Proseguii nel mio racconto.
«Il giovane garzone cammina in punta di piedi sul pavimento scricchiolante della casa del fornaio, incerto su quale stanza visitare, su dove possono essere custoditi i sacchi di farina».
«’Scricchiolante'», ripeté il giornalista. «Molto bene. Questa parola è un capolavoro di banalità».
Caro torinese, stavo per dirgli, io sono un'impenitente manipolatrice di banalità!
«Tutt'intorno regna un silenzio assoluto, non vola una mosca», raccontai invece. «La casa del fornaio sembra vuota. Finché arrivando in fondo al corridoio, vede una porta…».
Smise di scrivere. Appoggiò il taccuino sulla scrivania, si allentò la cravatta. Da fuori provenivano urla rabbiose. La felpa del Gallagher era stata lacerata. Mille mani cercavano di accaparrarsene un pezzo.
«Scena sublime! Impagabile! Un tempo ci si litigava le reliquie dei santi… Ogni epoca ha le sue santità promesse. I suoi mausolei. Ma mi scusi l'interruzione. Il suo racconto è molto interessante, sa».
«Il garzone si avvicina alla porta», dissi. «Questa è socchiusa. Lui la spinge appena, apre senza far rumore. E cosa vede?».
Il torinese impugnò la penna: «Oh, uno stuolo di fotografi, giornalisti, tecnici del suono…».
«E invece no: vede una donna».
«Ah, naturalmente! Toujours les femmes!».
«E chi era, se non sono indiscreto?».
«La moglie del fornaio».
«Ma certo. E chi altro poteva essere, in quel luogo a quell'ora…».
«Sta dormendo. E' distesa, abbandonata nel letto, i capelli sciolti sul cuscino. Si gira e si rigira tra le lenzuola».
«'Abbandonata nel letto': orrenda espressione!» disse lui stenografando veloce. «Très bien!».
«Sì, è un sonno, il suo, popolato di incubi… Si scopre», raccontai, «le lenzuola scivolano a terra e la camicia da notte si solleva. Il garzone la vede di spalle, poi si volta su un fianco, e il garzone adesso la può vedere frontalmente».
«Mm», disse il giornalista, «era una strega o che cosa?».
«Sulla pancia della donna c'è uno splendido ombelico».
«Apperò! Bene! Super!».
«Il garzone torna a casa. Ma quella notte non riesce a prendere sonno. Per colpa dell’ombelico, che l'ha turbato nel profondo».
«Autoerotismo», disse il giornalista.
«Non riesce a toglierselo dalla testa. Ci pensa e ripensa finché, nel cuore della notte, ecco che il garzone si alza».
«La masturbazione non sempre è soddisfacente».
«Si sente ispirato. Rapito. Inebriato».
«'Inebriato'», ripeté il giornalista scrivendo.
«E inventa questo genere di pasta che nella forma rievoca appunto quella di un ombelico», conclusi.
«E poi?».
«Basta. La storia finisce così».
Ci stringemmo la mano.
«Ha fatto un eccellente lavoro», si complimentò il torinese. «Ma davvero la pagano per raccontare queste stronzate?».
In quel momento, l'ascensore vomitò fuori Liam, il Gallagher giusto. Camicia safari, frangia interrotta dai Rayban.
[dalla Guida gastronomica]

venerdì 19 luglio 2013

Mr Pig

Il TdM, o Tempio della Mortadella, è il luogo nel quale si celebra l'apologia dell'insaccato e della gastronomia che, nel mondo, ha reso famosa la città. Un negozio in continua espansione. Prende nuovi spazi, aggiunge stanze, sempre di più sedimentandosi nel grande palazzo che da sempre lo ospita. Sul fronte dell'edificio si stacca un bovino rampante, lo stemma della corporazione dei macellai. Esplorandolo ci si può immaginare come la carne e i suoi molteplici derivati possano davvero reggere l'equilibrio del mondo.
Di fianco all'ingresso, si siede un frate. Raccoglie offerte e rilascia in cambio un santino. Saluta i turisti chiedendo da quale parte del mondo provengano.
Il re del TdM, o demiurgo dell'insaccato, è Mr Pig: faccia rosa lucido, sulla quale la pelle appare tesa e levigata. La forma del corpo, a imbuto, richiama un mortadellone in taglia XL. Tutti assomigliamo un po' a ciò che amiamo.
La settimana precedente, mi aveva annunciato che stava allestendo una nuova stanza.
«La inauguriamo tra qualche mese. Mettiamo la tavola per tirare la sfoglia. I giornalisti potranno in prima persona lavorare col mattarello e mangiarsi alla fine quello che hanno prodotto. Tu cosa mi consigli?».
«L'importante è che sia gratis».
«Ah, quando c'è da leccarsi le dita, tutto il mondo è paese», aveva convenuto Mr Pig.
Entrammo.
Dopo pochi minuti, il gallese passeggiava beato tra le scansie, come in vacanza premio.
Appena mi vide in compagnia, Mr Pig si defilò. Parlare coi giornalisti non gli piace. L'unico modo per obbligarlo alla conversazione è fargli l'improvvisata; coglierlo mentre sta annusando un culatello appena aperto, depositandolo sull'affettatrice.
«Mr Pig!» lo chiamai. «Questo signore è venuto apposta dalle nebbie del Galles a quelle padane per imparare tutto sui maiali! Che ci racconta qualcosa?».
Lui mi guardò con occhio truce. Poi, annusando l’aria, sorrise.
Perché Mr Pig è sensibile ai complimenti. E vuole che del TdM se ne parli bene e in tutto il mondo; crede alla magia della pubblicità.
«Possiamo fare un'intervista?» domandò il giornalista. 
«Come no!» ripose il demiurgo dell'insaccato, «I English», parlo inglese. «Great!». E non feci in tempo a dirmi disponibile alla traduzione, che  strofinandosi le mani nel grembiule, attaccò: «My uncle open the shop second world war need money no pigs poor people sell mortadella, understand?».
Il giornalista rimase con la biro in mano, interdetto.
«…Sixty per cent fatty meat forty per cent lean meat pigs no believe donkey», proseguì Mr Pig, «understand?».
«E' sempre un piacere ascoltarla, Mr Pig», dissi. «Lei è una delle personalità che più rappresentano la cultura della nostra città. Un portavoce esemplare».
«Vaglielo a spiegare te, agli stranieri, che è tutta una questione di odori», mi sussurrò mentre traducevo al gallese. «Chi ce l'ha il coraggio di dire a questi disgraziati che la mortadella non esiste?».
Il giornalista cominciò a toccarsi lo stomaco. A quel punto Mr Pig disse che si scusava, un impegno reclamava la sua presenza altrove. In questi casi, quando il capo se la fila, è prudente rinunciare allo spuntino a sbafo. Quella volta, però, cogliendo la disperazione nel gorgoglio dello stomaco del gallese, e volendo premiarlo per avermi seguito al museo archeologico, decisi di sfidare la sorte.
Mr Pig stava per rintanarsi, quando azzardai: «Che al nostro amico, gli fa assaggiare un tocchetto della sua specialità?».
Lui si voltò, lo sguardo di chi ti augura di morire di fame.
Vidi il piattino che, con gesto funereo, sollevava dal bancone e porgeva al giornalista. I cubetti di mortadella erano color grigio antracite, come ci avessero siringato dentro fiotti di cemento.
«Prego», disse con un sorrisetto vendicativo. E capii che non potevo fare proprio niente per salvare questo ragazzone così elegante, nelle sue scarpe made in Italy.
Morsicò il cubetto, masticò piano. Inghiottì.
«Purtroppo non è proprio freschissima», ammise Mr Pig.
Alle sue spalle, la cassiera sbarrò gli occhi, mimando con le dita il numero quindici. I cubetti assassini riposavano nel piattino da quindici giorni.
Mentre uscivamo, e il gallese si precipitava a vomitare il boccone nel cestino della spazzatura che il frate gli indicava, sbirciai il demiurgo dell’insaccato per un'ultima volta. Non era un uomo, ma una maschera beffarda.
«Eh sì, cari miei», ripeteva appoggiando delicatamente una forma sull'affettatrice, «la mortadella non esiste proprio!». Nei suoi occhi lampeggiava un guizzo di piacere.
[dalla Guida gastronomica]

giovedì 18 luglio 2013

Il Komitato

Il 24 giugno 1971, così è riportato sullo statuto che abbiamo scritto e firmato, decidemmo la fondazione del Komitato. Oltre alla Rossana e a me, ne sono membri e fondatori Sandro, la Sonia e sua sorella Mariangela che chiamiamo Mari.
Sandro, l'anno prossimo andrà in quinta elementare, come la Sonia. È più grande della Mari che invece frequenta la terza. Arriva sempre alla fornace a bordo della sua bici, che è una Graziella verde militare che apparteneva a sua nonna, col sellino tagliato dal quale esce l'imbottitura, e il manubrio che espelle pezzi di ruggine.
Dice che la Graziella, non la cambierebbe con nessuna bici da cross al mondo, perché anche se è da femmina, è la più veloce di tutte, e quando frena, inchioda sull'asfalto. Nel cestino, trasporta sempre delle scatole di polistirolo che gli procura suo padre nella fabbrica di pesce surgelato dove lavora al magazzino.
«Col polistirolo», dice, «si può fabbricare tutto quel che si vuole».
Ogni giorno arriva con delle scatole nuove e di grandezze differenti. Prima di poterle usare, però, deve lasciarle sul balcone del soggiorno di casa sua almeno per una notte, perché quando suo padre gliele porta, puzzano di sardine che fanno vomitare.
Sandro si siede al tavolo del capannone, e con un coltellino divide i pezzi di polistirolo creando delle sagome a incastro. In pochi minuti costruisce un oggetto.
«Cos'è?» gli chiede la Rossana.
«Un container subacqueo. Per trasportare lo squalo balena pescato in Groenlandia, dentro un sottomarino fino all'Italia».
Il suo eroe è Mao Tse-Tung, che sarebbe il presidente della Cina.
Un giorno, al manubrio della Graziella, appese una canottiera con sopra scritto Rivoluzione culturale. Per qualche tempo, la bandiera sventolò all'ingresso del capannone. Finché un pomeriggio la trovammo per terra, sul prato. Era strappata e sulla parete qualcuno aveva scritto Boia chi molla. La Mari cancellò con la tempera di colore bianco. Ci dipinse sopra cinque margherite, dai petali ciascuno di un colore diverso e dietro il fiore, un arcobaleno rovesciato.
«Perché l'hai disegnato al contrario?» le chiese Sandro.
«Così pensano che siamo dei sovversivi e non tornano mai più». E infatti mai più tornarono.
Sandro vuole diventare ingegnere navale; lavorare nel cantiere del Canale di Suez, sul Mar Rosso, dove approdano le navi petroliere degli sceicchi arabi, che trivellano gli oceani e ripartono per i mari del Sud cariche di barili.
«Io invece all'Università studierò le leggi dell'Italia», dice la Sonia. «Voglio partecipare ai processi in tribunale e far mettere in prigione il colpevole».
La Sonia è bionda e calcolatrice. Ha sempre una risposta pronta e uno sguardo gelido che mette in soggezione. Il padre suo e della Mari lavora nell'ufficio della Compagnia dei Telefoni. Ha gli stessi occhi celesti della Sonia, che quando piove diventano grigioverdi come l'acqua delle pozzanghere.
Le piace dare gli ordini. Alcuni giorni dopo che ci eravamo installati nella fornace, e che le regole del Komitato ancora non erano stabilite, lanciò la sua proposta.
«Ogni membro fa il capo a turno», disse. «Questo mese di giugno comanda Sandro, nel mese di luglio, comanderò io».
Parlò in modo così risoluto che nessuno subito ebbe il coraggio di esprimere la sua opinione, né dissentire. Finché la Mari ruppe il silenzio.
«Io non sono d'accordo», disse.
«Perché? Sentiamo», fece la Sonia ostile.
«La disciplina è un comportamento dell'anima. Non si può comandare».
«E invece l'ordine deve essere imposto da fuori».
La Mari scosse la testa. 
 
 
Lei è l'opposto di sua sorella. Castana e con le lentiggini sul naso. La pancia, i polpacci, le dita delle mani perfino, tutto nella sua persona è un po' grassottello. Non assomiglia a nessuno nella sua famiglia. «Secondo me», la prende in giro la Sonia, «all'ospedale ti hanno scambiata nella culla». «Ti credi di essere simpatica?» replica la Mari che è pacifica e non si offende mai.
In educazione artistica è la più brava della classe. Di mestiere vuole fare l'arredatrice. «Deciderò i mobili», dice, «per delle case con delle pareti trasparenti di vetro e legno, circondate da alberi frondosi, costruite in mezzo a un parco senza recinto».
«Ciascuno è responsabile del suo comportamento», disse quel giorno. «Se ognuno ha nel cuore una regola, spiegò, questa diventa la linea che aiuta a distinguere il buono dal cattivo. E quando si è capaci di decidere della propria vita», disse, «il bene che è per sé, lo è anche per gli altri».
«E quale sarebbe la regola?» chiese la Sonia diffidente.
«La coscienza», disse la Mari.
Da quando le ho sentito pronunciare queste parole, penso che sia lei il membro più saggio del Komitato.
[da Le descrizioni]

mercoledì 17 luglio 2013

Vi hanno impedito di sapere chi siete

Lo spirito, la dignità mondana,
l'intelligente arrivismo, l'eleganza,
l'abito all'inglese e la battuta francese,
il giudizio tanto più duro quanto più liberale,
la sostituzione della ragione alla pietà,
la vita come scommessa da perdere da signori,
vi hanno impedito di sapere chi siete:
coscienze serve della norma e del capitale.
[Pier Paolo Pasolini, Ad alcuni radicali da 'La religione del mio tempo', op.cit., pag.115]

martedì 16 luglio 2013

Da Lice Puda

- Tu vieni, Gigino, stasera da Lice Puda?
- Sì.
- Tu vieni, Jean, stasera da Lice Puda?
- Sì.
- Tu vieni, Enzo, stasera da Lice Puda?
- Sì.
- Tu vieni, Carmine, stasera da Lice Puda?
- No.
[Aldo Palazzeschi, Gigino Siccoli, Jean Polverini Badel, Enzo Tolu, Carmine Lazzarini, 15 febbraio 1915]

 

lunedì 15 luglio 2013

La rabbia è propria delle bestie

Su un tanto nemico sperare di conseguire una vittoria senza sangue è piuttosto vana pazzia che generosa fiducia […]. Far guerra a tali uomini cedendo a un breve impeto d’ira e abbatterli, anche se lo possiate impunemente, non vedo che diletto possa avere per voi; lo vedranno forse meglio di me gli animi accesi di coloro che a mo’ di femmine godono dei dolori degli amici e della vendetta di ogni offesa. Ma è cosa né inutile né onesta, e neppure umana: assai meglio è dimenticare l’ingiuria che vendicarla, meglio placare il nemico che annientarlo […]; che se anche a raggiungere l’uno e l’altro scopo ugual fatica occorresse, tuttavia la mitezza è propria degli uomini, la rabbia delle bestie, e non di tutte ma delle più ignobili e d’indole più feroce.
[Francesco Petrarca, Le familiari – Ad Andrea Dandolo, doge di Venezia, esortandolo a far pace coi Genovesi – op. cit., pag. 947]
 

mercoledì 10 luglio 2013

Non sei padrone dello stato, ma servo

«Tu dunque, finché è tempo, medita a lungo», come dice quel giovane di Terenzio; considera, te ne prego, ciò che fai, studia te stesso, esamina (e non ti sbagliare) chi sei, chi fosti, donde vieni e dove vai, fin dove puoi spingerti innanzi senza offendere la libertà, qual veste tu porti, quali impegni hai preso, quali speranze hai dato di te, che cosa hai promesso: e vedrai che non sei padrone dello stato, ma servo.
[Francesco Petrarca, Le familiari – A Nicola – Cola di Rienzo – tribuno di Roma, sdegno misto a preghiera per il suo mutato contegno – op. cit., pag. 895]

venerdì 5 luglio 2013

Per molti la cultura è uno strumento di pazzia, per quasi tutti di superbia

Per molti la cultura è uno strumento di pazzia, per quasi tutti di superbia […]. Quel tale sa una quantità di cose sugli animali feroci, sugli uccelli, sui pesci: quanti peli ha il leone sulla testa, quanto piume l’avvoltoio nella coda, con quante spire il polipo abbraccia il naufrago; come gli elefanti si accoppino volgendosi le terga e come la loro gravidanza duri due anni […]; come la fenice si bruci sopra una pira di legni aromatici e, bruciata, rinasca; come il riccio possa frenare una nave spinta a qualsivoglia velocità, mentre fuori dell’acqua non ha forza alcuna; […] che le talpe sono cieche e le api sorde, che – finalmente – di tutti gli esseri animati soltanto il coccodrillo è capace di muovere la mandibola superiore. Tutte cose false in grandissima parte […]. Ma anche se fossero vere non servirebbero affatto a vivere felici. Di grazia, come può giovare conoscere belve, uccelli, pesci, serpenti, e ignorare ovvero non curarsi dell’uomo […]?
[Francesco Petrarca, op.cit., Prose polemiche, pgg.713-715]
 

giovedì 27 giugno 2013

L’impegno del romanzo è con la realtà

Caro O, tu ignori un assioma del mestiere del poeta: «Se una poesia è facile da scrivere, in quella poesia ci deve essere qualcosa che non va». I sogni sono facili da scrivere; per questo ci sarà sempre qualcosa di sospetto nei sogni in un romanzo, nei sogni inventati.
[…] L’impegno del romanzo non è con la realtà piuttosto che con la fantasia? Non è quello che ci dice Cervantes quando scrive il suo testo seminale per il mestiere che facciamo tu ed io? Che non ci possiamo inventare la vita secondo i nostri desideri man mano che andiamo avanti, che dobbiamo affrontarla per quello che è?
[J.M.Coetzee, carteggio con lo scrittore O, testo riportato su 'la Repubblica' di martedì - letto dall’autore nell’ambito della Milanesiana 2013]
 

mercoledì 26 giugno 2013

So it goes #50

Canto, ancora canto: «Quello che non ho... tatàtatàtaratatan… sono i tuoi denti d'oro… Quello che non ho…  è un pranzo di lavoro… Quello che non ho…  tatàtatàtaratatan… è questa prateria… per correre più forte… della malinc_ QUELLO CHE NON HO... TATATATATARATATAN», sciò! sciò! sciò! e nel mentre sollevo le braccia, «SONO LE MANI IN PASTA… QUELLO CHE NON HO», hep! hep! hep!, «E’ UN INDIRIZZO IN TASCA… QUELLO CHE NON HO», zac! zac! zac!, «SEI TU DALLA MIA PARTE». E qui mi fermo. Perché? Così. Ho finito. Buona questa.
 
So, so.
So it goes un po’strano, dice Kurt.
Strano?
Sì, strano, dice.


 

 

martedì 25 giugno 2013

So it goes #49

Così canto: «Quello che non ho... tatàtatàtaratatan… è una camicia bianca… Quello che non ho…  tatàtatàtaratatan… è un segreto in banca… Quello che non ho…  tatàtatàtaratatan… sono le tue pistole… per conquistarmi il cielo… per guadagnarmi_ QUELLO CHE NON HO... TATATATATARATATAN», così io canto ma adesso a squarciagola, «E’ DI FARLA FRANCA… TATATATATARATATAN… QUELLO CHE NON HO... E’ QUEL CHE NON MI MANCA... QUELLO CHE NON HO… SONO LE TUE PAROLE…». Così canto, così. So, so, so.
 
So it goes, dice Kurt.

giovedì 16 maggio 2013

Aneddoto quinto


Il 14 maggio 1931 Arturo Toscanini è invitato al teatro comunale di Bologna, a dirigere un concerto in memoria di Giuseppe Martucci, emerito direttore d’orchestra della città. In prima fila, in platea, siedono il ministro Costanzo Ciano e il funzionario Leandro Arpinati. Al cospetto dei due gerarchi fascisti, al direttore viene impartito l’ordine di eseguire Giovinezza poi l’Inno reale. Quello di ripetere gli inni fascisti prima dei concerti fa parte del protocollo. «No», dice Toscanini. Getta la bacchetta a terra. Lascia il palcoscenico. In teatro è scompiglio generale. All’ingresso laterale ci sono delle camice nere che lo aspettano. Schiaffeggiano Toscanini. Il maestro si precipita all’hotel Brun. «Deve lasciare subito la città», ordina il federale Mario Ghinelli, «altrimenti rischia grosso. La pelle, per la precisione». La sera stessa, il compositore bolognese Ottorino Respighi lo accompagna in stazione e mette sul primo treno in partenza per Roma. Il 19 maggio, all’unanimità, l’Assemblea regionale dei professionisti e artisti dichiara: «Deploriamo il contegno assurdo e antipatriottico del maestro Arturo Toscanini». È a quel punto che il direttore scrive a Benito Mussolini in persona. Sì, avete capito bene: Toscanini, su tutte le furie, scrive una lettera di ferrea protesta indirizzata direttamente al Duce. Poi lascerà l’Italia, i fatti andranno come sappiamo. Eppure, non so voi, ma a me l’immagine di Arturo Toscanini, seduto alla scrivania, intento a comporre una lettera di lamentele al nano dittatore, mette di buon umore.

 

sabato 11 maggio 2013

Domanda: vorremmo sapere qual è la sua opinione sul maquillage della donna - Risposta: è un argomento che non m'interessa affatto [spezzone di programma Rai con Alberto Moravia - c'è anche Indro Montanelli che fa il furbo]


Si contentano

Ricerco libri di diverso genere, che siano insieme, per gli autori da cui sono stati scritti e per gli argomenti che trattano, compagni graditi e assidui, e pronti a uscire in pubblico o a ritornare nel cassetto al tuo comando, e sempre disposti a tacere e a parlare, a rimanere in casa e ad accompagnarti nei boschi, a viaggiare, a starsene in campagna, a chiacchierare, a scherzare, a incoraggiarti, a confortarti, a consigliarti, a rimproverarti e a prendersi cura di te, a insegnarti i segreti delle cose, e le memorie delle imprese, e norme di vita, e il disprezzo della morte, la moderazione nella buona fortuna, la forza nell’avversa, l’imperturbabilità e la costanza nel tuo comportamento: compagni dotti, lieti, utili e fecondi, che non ti sono causa di noia, né di spesa, né di lamenti, né di mormorii o d’invidia, né d’inganni. E mentre ci danno tanti vantaggi, si contentano di una piccola parte della casa e di una veste modesta, senza aver bisogno di cibo né di bevanda alcuna, mentre sono proprio essi che ai loro ospiti procurano inestimabili ricchezze spirituali, vaste abitazioni, splendide vesti e piacevoli conviti e cibi dolcissimi.
[Francesco Petrarca, La vita solitaria – libro secondo, op. cit., p.557]

domenica 28 aprile 2013

Scrivere non per accomodare (...) ma per dibattere [intervista a Paolo Volponi, in un imprecisato programma RAI]


Non date retta

Le comunità virtuali non costruiscono nulla. Non ti resta niente in mano. Gli uomini sono animali fatti per danzare. Quant’è bello alzarsi, uscire di casa e fare qualcosa. Siamo qui sulla terra per andare in giro a cazzeggiare. Non date retta a chi dice altrimenti.
[Kurt Vonnegut, op.cit., p.57]

 

sabato 27 aprile 2013

Descrizione dell’opera dell’artista Nam June Paik, esposta nella mostra ‘Nam June Paik in Italia’ – Galleria civica di Modena – fino al 2 giugno 2013



TV Candle, 1975
Stiamo parlando di un buffo coreano che nel giorno delle sue esequie, alle quali presero parte artisti come Merce Cunningham, Yoko Ono, Christo – celebrate il 3 febbraio del 2006, nella prestigiosa cappella funeraria Frank E. Campbell, sulla Madison Avenue, NY – lasciò scritto che voleva fossero distribuite delle forbici individuali, con le quali ciascun partecipante agevolmente potesse tagliuzzare la cravatta del proprio vicino. Così il caro estinto già aveva operato, nel lontano 1960, in occasione di una celebre performance, durante la quale ‘aggredì’ il musicista John Cage, non prima di avergli fatto lo shampoo.
Stiamo parlando di un tizio che nel 1965, fece esibire una violoncellista in topless - sì, proprio così! -con due microvideo spenzolanti agganciati ai seni, sul palco del Carnegie Hall, a un certo punto sostituendosi al violoncello stesso (Sextronic Cello, 1965). E l’esecuzione fu interrotta, naturalmente, Charlotte Moorman in fretta e furia fatta rivestire, accompagnata in questura. «Forse voi siete una precorritrice!» le disse il giudice, «forse tra dieci anni, queste cose, al Carnegie hall, si potranno fare!». Non ci conterei.
Parliamo dell’artista che è stato l'autore del primo programma televisivo intercontinentale, in simultanea trasmesso in Europa, America, Asia, una diretta nel primo giorno dell’anno (Good Morning Mr. Orwell, 1984). E quando gli domandarono: «Perché la Tv?», Nam June Paik candidamente rispose: «Sono un povero uomo, provengo da un povero paese, dunque sempre devo tenere presente il mio pubblico». Olè.
Lo si nomina come artista visivo, Nam June Paik, ma si fa per dire, dato che al pari dei suoi colleghi del movimento Fluxus, di pennelli, colori e tele, se ne infischia. Studia musica al Conservatorio, piuttosto, tra il Giappone e l’Europa. Parte dalla dodecafonia di Arnold Schoenberg, e va a finire coi sintetizzatori della musica elettronica; in Germania entra nell’équipe di Karl-Heinz Stockhausen. Sembra a caccia di scandalo, e invece è uno che in realtà fa sul serio, eccome.
In questa mostra, che assolutamente vi consiglio, si vuol far vedere il legame che ebbe con il nostro paese, che l’artista diceva di amare soprattutto in virtù del suo amore per la musica d’opera. «Adoro l’opera lirica», diceva, «perché in essa, come nella musica elettronica, c’è tutto: musica, spazio, movimento».
Maria Callas, 1995
Ci sono quei buffi robottini che s’inventò negli anni Novanta, assemblaggi di vecchie radio, oggetti elettronici, minuscoli monitor, impiastrati di colore, dedicati ai miti dell’opera, appunto, come il Robot 5 (1995), intitolato al big Luciano nazionale, oppure Maria Callas, con la testa a forma di altoparlante e i ferri da stiro per piedi. Detto fra noi, il ferro da stiro non so se alla divina sarebbe piaciuto…
Camminando da una sala all’altra, vengono in mente le riflessioni che Nam June Paik sempre s'è fatto sul rapporto Oriente/Occidente (Young Buddha on Duratrans Bed, 1989-1992), laico/ religioso. Sacro e Profano, per esempio, 1993, mostra una provocante signorina nuda che ammicca facendo capolino oltre due monitor televisivi, mentre sopra di lei, nella stessa posa, se ne sta distesa una serafica divinità orientale.
A proposito di sacro e profano, tengo a ricordarvi che a questo burlone performer, armato della prima telecamera lanciata sul mercato dalla Sony, venne l’idea di filmare il traffico di New York, nei convulsi giorni che accompagnarono la visita di papa Paolo VI (Café Gogo, 1965). Per quelli di voi ai quali interessano i primati, corre leggenda che si tratti del primo video d’arte della storia.
Le opere dedicate all’Italia, alla sua geografia turistica, sono dei piccoli monitor dalle cornici scintillanti, oltremodo trash, incastonate di pietre, con l’antenna da insetto meccanico ficcata in cima. Contengono simboli orientali, figurine di personaggi famosi, stereotipi. C’è una Venere botticelliana, per esempio, la conchiglia-piedistallo che le si apre sotto i piedi, il golfo di Napoli sullo sfondo, che ha la faccia del segretario di stato americano (Hillary Clinton, 1997).
A proposito di Hillary, bisogna registrare un aneddoto, davvero spassoso. Nel 1998, Nam June Paik – già famoso, Leone d’oro alla Biennale del 1993 - in occasione di una cena ufficiale, fu invitato dai Clinton, alla Casa Bianca. L’artista, che si muoveva all’epoca in carrozzella, decise di presenziare alla cerimonia servendosi di un deambulatore, che riteneva ausilio motorio più dignitoso e consono alla formalità della situation. Si racconta che all’improvviso, mentre faceva per stringere la mano alla First Lady, i pantaloni gli scivolarono giù, scesero fino alle ginocchia, e che sotto fosse praticamente nudo. La Clinton andò su tutte le furie, of course. Un affronto politico? Il re è nudo, appunto? Una fatalità? Non s’è mai saputo.
E il bello sta proprio lì: con Nam June Paik, non si sa mai dove si va a parare.
Eppure l’opera che io preferisco di questo artista provocatore, e che ho ritrovato esposta, è uno dei lavori più delicati e poetici nei quali, ragionando di arte contemporanea, mai mi sia imbattuta. È una scatola televisiva, niente poco di più che un involucro vuoto, di un vecchio apparecchio degli anni Sessanta, che al suo interno custodisce un’esile candela accesa (For Philip, 1975). Philip Corner, il pianista al quale l’artista la regalò, racconta che quel giorno, ricevendolo nel suo loft newyorkese, Nam June Paik gli indicò una gran massa di carcasse televisive, che teneva ammucchiate  in un angolo, e gli disse: «Scegline una. Poi, a casa, mettici dentro una candela». «Che tipo di candela?» disse Corner. «Una qualsiasi», disse Nam, «basta che sia accesa».
Ecco, per me, in quel ‘basta che sia accesa’, c’è il cuore di ciò che Nam June Paik ci ha voluto dire.




 
 

giovedì 25 aprile 2013

Gli altri dormono [Intervista a Beppe Fenoglio di Gino Nebiolo, "Gazzetta del Popolo", 9 ottobre 1962]

Noi dormiamo sotto il peso dei nostri difetti provinciali e ci siamo talmente abituati che non li sentiamo più. La borghesia albese aveva, prima del fascismo, un peso ed un senso. Il fascismo l'ha distrutta o assorbita. Avevamo quattro o cinque giornali che provocavano epiche risse, persino duelli con le loro vivacissime competizioni elettorali. Chi se li ricorda?
Prima della guerra, quando ero studente, vi erano insegnanti che distribuivano cultura anche fuori dalle aule scolastiche. Il prof. Petronio, oggi ordinario di cattedra universitaria, ci insegnò a leggere Proust, Svevo, Melville. Il prof. Chiodi, massimo studioso di Heidegger in Italia, anch'egli oggi ordinario di cattedra universitaria, sapeva parlare ai giovani a scuola e nelle sale dei caffè e spalancava menti e coscienza.
Quanti di noi andammo partigiani perché sapevamo che c'era anche lui? E quanti gli devono la formazione intellettuale e civica? Ora gli altri dormono. Penso che leggano poco, perché, bene o male, chi legge, come dice Fichte, deve alla fine restituire, cioè produrre: qui non si produce nulla ed i giovani, per quel che ne so, preferiscono il pocherino, le fiacche conversazioni di paese, i film del sabato sera.
Sanno che scrivo, è già molto. Forse qualcuno compra i miei libri, ma non ho mai conosciuto un giovane che mi dicesse con franchezza: ho letto il tuo libro, non mi è piaciuto, discorriamone insieme. Li leggono perché mi conoscono, per una curiosità banale, per ragioni sottoculturali. In tanti anni che scrivo di Alba e su Alba e in Alba i soli contatti con i giovani sono stati: di una ragazza che mi ha sottoposto il suo diario intimo, un po' indecente, e di un ragazzo che voleva consigli su certe poesie. È poco? Ma Alba, ottusa da un lungo sonno, distratta dai barbagli del "boom" poco può dare di più».

So it goes #48

«Enrico Letta, a momenti compie cinquant’anni», dico, «giovane non è». Sono con Zelda. Davanti al memoriale dei partigiani, in piazza del Nettuno, si compie la celebrazione. I bersaglieri strombettano l’inno d’Italia, ci sono le corone d’alloro, le spillette col tricolore. «…Che Napolitano dica Affido il mandato di formare il nuovo governo a Enrico Letta perché, benché sia giovane, già ha maturato una buona esperienza politica… Ti sembra una frase appropriata?» dico. «…Come se essere giovani e agli esordi  fosse un difetto». Zelda non risponde. Guarda gli studenti barbuti che si mischiano agli ex partigiani. «Quelli sono giovani», dice. Da quando ha rotto con Scott è ringiovanita; Rayban nuovi di zecca, chioma ramata che le luccica al sole, è perfino abbronzata. «Io penso che il paese semmai di una mente lucida e sgombra abbia bisogno», dico, «mica di un artigiano che rimetta insieme dei cocci di politica». «Sto leggendo dei racconti di Maupassant», dice lei, «in francese. Molto belli». Dice che le piacerebbe andare a Venezia, a vedere la mostra di Manet, che vorrebbe trasferirsi a Ginevra, dato che lì da un anno studia. Cioè, dei miei discorsi arrabbiati, se ne infischia. Ma essere evasivi, Zelda, è facile da farsi, facile da dirsi, penso.
 
So so so.
 

mercoledì 24 aprile 2013


Io, sono la calamita umana, donna stick. Un turista americano mi placca, appena entro in piazza. «Quella bandiera lì, cos’è?» dice. Indica lo stendardo con sfondo azzurro, le stelle gialle disposte a corona, dell’Europa unita. Si affloscia sopra l’ingresso del palazzo comunale. «L’Unione europea», dico, «Francia, Germania, Spagna… presente?». Lui scuote la testa. «Prenda fuori la moneta da un euro, da quel suo wallet Gucci fake»,  gli dico, io, calamita umana, donna stick. «Le vede le stellette che ci sono sopra, in rilievo?». Sticky, sticky. «Le stellette», dice, «già la bandiera americana le contiene...». Lo guardo. Cioè, vuole dirmi, questo yankee di merda, che noi europei siamo dei fottuti imitatori, a me, lo dice, la calamita umana dei turisti, donna stick. Non mi resta così che prenderlo per il braccio. Sticky sticky calamitarlo sotto il memoriale dei partigiani, la parete tappezzata dalle loro foto ritratto, black and white d'annata. «Le vede, quelle faccette?» dico. «Pensi che la città di Bologna, i ragazzini là, l’han liberata perfino quattro giorni prima che arrivassero gli americani… È chiaro?». «Oh, absolutely», dice lo yankee riponendo l'Euro nel wallet. «Absolutely cosa?» dico io, sempre più sticky sticky, calamita umana, donna stick.

martedì 9 aprile 2013

So it goes #47

«No no no», dico a Zelda, e mi prendo la testa tra le mani. «Cos’hai?» fa lei. «Cos’ho? Ma lo senti Franceschini? E Renzi? E Veltroni? E Fassina, lo vedi?». «Fassina», dice Zelda. Così mi tappo le orecchie. «Non pronunciare quel nome», dico. «F-A-S-S-I-N-A», scandisce Zelda apposta crudele. «No no no», dico, e mi prendo la testa tra le mani. Mi metto in piedi davanti alla tivù spenta. Decido che faccio un appello alla redazione del TG3: «Dico, con quel filmato di Bersani che su se stesso si gira, occhi bassi guarda da una parte poi dall’altra, come a dire E adesso dove vado? col sigaro che gli spenzola dalle labbra, la volete smettere? Eh? Basta così?». «FASSINA», dice Zelda. No no no.
 
So it goes, dice Kurt.
 

giovedì 4 aprile 2013



Voglio scusarmi, e così lo sapete. Mi ha preso la passione di rovinare le fotografie altrui. Costeggio la fontana del Nettuno, per esempio, vedo uno straniero che sta per scattare una foto alla sua bella, in posa davanti al Gigante, e subito eccomi lì: devio la traiettoria del mio cammino, mi precipito nel suo campo visivo, proprio mentre scatta, e quella foto è per sempre perduta, lost. Peccato, e così lo sapete. Oppure, sono davanti alla statua di Luigi Galvani, lo scienziato che mostra la ranocchia spiattellata sul libro, quella che ha usato per i suoi esperimenti, suppongo, sono lì, magari per caso,  e subito la riconosco, in arrivo dal bar Zanarini: è una ragazza bionda, nordeuropea, con dei bei denti bianchi che ridono. Alza le braccia, sceglie l’inquadratura: vuole fotografare lo scienziato, farlo vivere immortale nel suo Ipad. «Può spostare?» dice. «No», dico. Lei sorride. Non capisce. Peccato, e così lo sapete. La ragazza si sposta. Ma io mi sposto con lei, vado sotto al piedistallo, perfino. Lost, lost, lost. Non vi sopporto, voi fotografi di statue e monumenti celebrativi, che spingete moglie, fratello, bambino, a fianco del prezioso oggetto storico, vestiti in braghe corte, col cappellino da baseball, in canotta, la borsetta griffata a tracolla. Io non vi sopporto. Sciuperò la vostra foto. Voglio scusarmi, e così lo sapete.

martedì 2 aprile 2013

Anche a calci

La sedia da spostare 
 
a) Secondo me quella sedia lì va spostata.
b) Anche secondo me quella sedia lì va spostata.
a) Facile dirlo quando l’han detto gli altri.
b) Se è per questo sono anni che lo dico e nessuno mi ascolta.
a) Da un’approfondita analisi storica e sociologica vien fuori che quella sedia pesa dai nove ai dieci chili.
b) Non sono d’accordo. Dai sondaggi il 2% degli intervistati dice che pesa dai cinque ai sei chili, il 3% dai sei ai sette chili, il 95% non lo so e non me ne frega niente. Basta che la spostiate.
a) Secondo me per spostarla ci vorrebbe qualcuno che la prendesse delicatamente per la spalliera e la mettesse da un’altra parte.
b) Eccesso di garantismo. Al punto in cui siamo è assolutamente necessario prenderla in qualsiasi modo. Anche a calci.
a) A calci? Ma questo è profondamente antidemocratico e anticostituzionale.
b) Se è così cambiamo la costituzione.
a) Non è una cosa che si può fare da un giorno all’altro. Nel frattempo propongo di indire un referendum.
b) Non si troveranno mai 500.000 firme per spostare una sedia.
a) E allora non c’è scelta: elezioni anticipate.
b) No, le elezioni oggi no. Sarebbe troppo grave per il paese. Forse domani.
a) Rimane il problema urgente della sedia da spostare.
b) Su questo sono d’accordo. Può essere un punto d’incontro.
a) Parliamone.
b) Parliamone.
[Giorgio Gaber, estratto dal libretto dello spettacolo teatrale 'E pensare che c'era il pensiero']

sabato 30 marzo 2013

Descrizione dell’opera dell’artista Mario Ceroli, esposta nella mostra ‘Faccia a faccia’, al Mambo di Bologna, fino ad aprile



Battaglia, 1978
«Il quadro dietro al divano, lo detesto», disse Mario Ceroli intervistato, un giorno di quarant’anni fa, e infatti. Le matite alte un metro circa che si stringono compatte in un tridimensionale tappeto di punte legnose (Primavera, 1969) alle spalle del sofà, nel mio soggiorno, faccio fatica a pensarle.
Nemmeno ci vedrei l’oasi di bandiere bianche che si afflosciano sui pali conficcati nel rettangolo di sabbia del Progetto per la pace e non la guerra (1969), no.
Ecco un artista che si gode lo spazio, penso.
E appena entro, in lontananza, subito la avvisto, al centro della sala maggiore. È la famosa istallazione La Cina (1966), gli uomini-sagoma in marcia disposti lungo file parallele, collegati da un tubo ferroso che li trafigge nel petto, scandisce il loro passo. Formeranno pure l’esercito di Mao Tse-Tung, il Grande Timoniere, ma a me, hanno sempre messo in testa gli omarini del Calciobalilla… trasformati in un formato gigante, si capisce, da un Geppetto artistoide che va pazzo per il bricollage, Hobby & Legno, quelle robe lì.
No, Mario Ceroli, secondo me, è uno che si diverte un mondo. E quando gli artisti si divertono, anch’io mi diverto.
Me lo immagino mentre con gusto ritaglia (dato che dichiara di far tutto da solo, senza l’ausilio del falegname) le sue figurine di legno (pino di Russia), le incastra e ricompone su piani diversi. Da lì viene, penso, il titolo della mostra, ‘Faccia a faccia’, ovvero: positivo/negativo, dritto/rovescio, buona/cattiva coscienza. Perché quel che salta fuori, da tutto quell’incastrare, alla fine, e incredibilmente, è una singola figura! Unica eppure sfaccettata, moltiplicata su se stessa. Come a dire che ogni uomo è diverso dall’altro e anche da se stesso, ha le sue personali complicazioni che possono perfino essere contraddizioni, e del tutto inspiegabili. E niente si può fare per regolarizzare la cosa.
Viene in mente il pensiero espresso da Michelangelo, quando diceva che scolpire significa sottrarre materia alla materia, coi suoi contemporanei che, ci giurerei, lo prendevano per matto. «Io voglio sovrapporre», dice Mario Ceroli invece. E le sue sagome infatti mai sono a tutto tondo, mai. D’altra parte nessuno di noi lo è, penso. C’inventiamo i nostri comportamenti imprevedibili, e per fortuna. Che noia sarebbe, sennò.
«Non chiamatemi artista del legno», dice. Fin dagli esordi, negli anni Sessanta, nel contesto della cosiddetta Arta Povera, a Ceroli è sempre piaciuto usare anche legno di recupero, tavole di compensato, materiale da imballo. «Dal legno bruciato traggo una particolare soddisfazione», disse. Alberto Burri docet? E per forza, rispondo io. Perché un pezzo di legno bruciato è come la faccia di un uomo che soffre. Descrivere un pianto scrosciante è infinitamente più interessante che descrivere una risata sguaiata, si sa.
Centouccelli, 1967
Delle sagome bruciacchiate compaiono nella serie Dietro la rete (2010), sul fondo di rettangoli in rete metallica, appunto, fissata a mo’ di scatola all’incasso di legno. Sono i gesti anneriti di uomini intenti a far qualcosa, eppure imprigionati. Ed eccolo lì, il web, lo scherzo della vita reale fagocitata dall’algoritmo della relazione virtuale. Possiamo parlare di paralisi del sudore?
Mi guardo intorno.
Non c’è la Cassa Sistina (1966), no. Fece scalpore, Ceroli, confezionando o meglio imballando un box in legno compensato, di quelli per trasporto, con sopra scritto ‘fragile’ ecc., sul quale aveva ricavato un tetto a spiovente da chiesa, e che riempì di attrezzi da lavoro. Peccato, peccato.
C’è invece una enorme gabbia che contiene un’altra gabbia che a sua volta contiene una terza gabbia con dentro la sagoma annerita di un uomo seduto (Centouccelli, 1967). Che è una bella metafora, per chi ama le metafore, chiaro. Io, non sempre.
C’è un gruppo di cavalli-sagoma, altezza naturale, con in sella cavalieri che sollevano bastoni con stendardi di stoffa colorata (Battaglia, 1978). Paolo Uccello? Oh yes, a lui si pensa:  Rinascimento, positività, progetto smarrito.
Mi fermo a guardarla. È un’istallazione di una bellezza che lascia sgomenti, credetemi. «Voglio essere sulle piazze», disse Mario Ceroli, «in grandi spazi». E questo esercito equino bisogna immaginarselo proprio su una piazza, ma non solo; anche dentro il cortile di un palazzo, in cima a un colle, dentro un giardino, perfino…

Dietro la rete, 2010
C’è poi Il raccoglitore di miele (1991): l’uomo-sagoma si arrampica su un bastone di forma ellittica con a fianco uno pseudocesto che deve riempire del prezioso alimento. L’agricoltore può diventare un autentico funambolo della natura, già.

C’è l’impronta di un uomo, per terra, cosparsa di cenere, stampata su un piano di legno, arso, naturalmente (L’amore per la terra, 1991). E ci sono quattro campane con sopra le magiche parole ‘aria’, acqua’, ‘fuoco’, ‘terra’, rette in cima a dei bastoni, tirate in cielo da corde: L’accordo dei quattro elementi, 1976. Magari.
E poi si cammina più leggeri.
…Pensate che nei Planisferi (1990), nella geografia delle terre, quelle emerse sono ricavate niente poco di meno che in foglia d’oro! Noi umani siamo dunque così importanti? Boh.
C’è infine un’opera, che ci riporta coi piedi per terra, dal titolo a dir poco eloquente, La strada della politica negli ultimi cento anni, 1989 – i titoli di Ceroli sono sempre stratosferici -, sulla quale, da un grumo di colore, sulla tela, si staccano falce e martello e croce uncinata… e  degli uomini microscopici, tutti in fila, si muovono in cammino, quei simboli seguendo o inseguendo, a seconda di come la vogliamo vedere.
Così sorge spontanea la domanda: può l’umanità sopravvivere alla scomparsa dei simboli?
Io, l’arte contemporanea, la adoro per questo. Perché parte da un pezzo di legno e arriva alle nostre budella.

                                 
 

venerdì 29 marzo 2013

So it goes #46

«…Non perderti per niente al mondo», canto, «lo spettacolo vario… di uno innamorato di te». Da qualche giorno, ce l’ho in testa, la canzone di Paolo Conte. Non che io, in questa fase della mia vita, stia ascoltando il cantautore, intendiamoci, no. Strano, penso. Chiamo Zelda e glielo dico. «Perché ce l’ho in testa?» le domando. «Guarda che Scott», fa lei, «sono stata io a piantarlo, eh». Così, testualmente dice. «Che cosa c’entra Scott con Paolo Conte scusa?». Riattacco. Mi guardo lo streaming dell’altro giorno, l’incontro nella saletta di Montecitorio tra Bersani e i due capogruppo del M5S. Il discorso di Bersani, non credevo, ma mi convince. «Mi sembra di sentire una puntata di Ballarò», dice invece la capogruppo alla Camera grillina. Così oggi richiamo Zelda. «Ma secondo te», dico, «tra la canzone di Paolo Conte, il fatto che tu ti sia liberata di Scott, e il parlamento che il M5S vuole governi senza capo, e sovrano, secondo te, c’è un legame?».
 
So so so.

giovedì 28 marzo 2013

C'è da vomitare

Vorrei mangiare sotto una cupola.
Com'è immondo mangiare in un qualunque restaurant.
Mangiare e veder mangiare.
Una sala da pranzo cattedrale!
Ma è incomodo mangiare colla gente a pregare.
Mangiare e sentir borbottare.
C'è da vomitare.
Mangiare... senza tanto pensare.
Mangiare e non ci badare.
[Aldo Palazzeschi, Disappetenza, 15 dicembre 1914]

Ah, si?...

Io sono tuo padre.
Ah, sì?...
Io sono tua madre.
Ah, sì?...
Questo è tuo fratello.
Ah. sì?...
Quella è tua sorella.
Ah. sì?...
[Aldo Palazzeschi, L'indifferente, 15 dicembre 1914]

martedì 26 marzo 2013

So it goes #45

«Max», dico, «ma tu lo sai perché ti amo?». «No», dice. «E saperlo, ti interesserebbe?». «No», dice. «Tu davvero non desideri conoscere il perché di questo mio estremistico sentimento che si è andato maturando nei confronti proprio della tua persona?». «Ma per un cazzo», dice Max.

 So it goes, dice Kurt.

venerdì 22 marzo 2013

Poco mi curo di come io abbia parlato

In realtà nella conversazione quotidiana con gli amici e con i familiari non ho mai avuto preoccupazione di parlar forbito; e mi stupisco che Cesare Augusto l’abbia avuta. Ma dove l’argomento o la sede o la persona che m’ascoltava parevano richiedere diversamente, mi sono provato un poco; con quanta efficacia, non so; l’hanno a giudicare coloro di fronte ai quali parlai. Per mio conto, purché abbia vissuto rettamente, poco mi curo di come io abbia parlato: gloria vana è cercare la fama unicamente nel luccicare delle parole.
[Francesco Petrarca, op.cit., p.7]

giovedì 21 marzo 2013

So it goes #44


«Scott mi ha detto che s’è innamorato di una», dice Zelda al telefono. «Ma va’?!». «Sì, è lì che non capisce più niente, poveretto». Scott e Zelda convivono da vent’anni. «Che tu e Scott interrompiate la vostra storia d’amore», dico, «lo troverei del tutto appropriato. E positivo per te senz’altro». Perché Scott è un rammollito, e il classico intellettuale egocentrico. «Questa donna ha trentacinque anni», dice Zelda, che significa vent’anni meno di lei. «Non so, da quando ha compiuto i cinquanta», dice, «si è del tutto rincoglionito a inseguire la figa giovane… vuol dimostrare la sua virilità, penso… fa certe battute da camionista, non ci crederesti». Ci credo, invece. «Zelda», taglio corto, «considerati baciata in fronte dalla fortuna. Chiamala provvidenza o come ti pare… Questa è una possibilità unica e irripetibile che senza neanche tu l’abbia chiesta ti è stata regalata per… Zelda?». Ha riattaccato. «Non sei molto delicata», dice Max. No, infatti. Nelle questioni sentimentali, non sono delicata. Soprattutto le volte che di mezzo c’è uno stronzo. Sono una drastica, io. La richiamo due giorni dopo. «Allora?». «Mah», dice, «sembra che la donna, di questa cosa, non ne sapesse niente». «In che senso?». «Era all’oscuro di tutto. Gli ha detto, a Scott, che lui aveva frainteso i suoi sentimenti». «Stai forse dicendo che Scott s’è sparato un suo individuale viaggio amoroso?». «Esattamente», fa Zelda. Strepitoso! Insuperabile! «Vaga per casa», dice, «farfugliando frasi tipo ‘mi sono sbagliato… tu sei la mia donna’… è fuori di testa… dice che l’ha conosciuta a un bar di via Mengoli, pensa». «Be’, il bar fa parecchio anni Cinquanta…». «Un po’», dice Zelda. «Zelda, senti», dico, «ma ti rendi conto del colpo di culo?». «No». «Ti rendi conto che senza far un emerito cazzo di niente, del tutto a tua insaputa quasi, ti stai finalmente liberando di quello?… Zelda? Zelda accidenti?». Ha riattaccato.
 
So it goes, so so.