martedì 10 dicembre 2013
domenica 1 dicembre 2013
martedì 26 novembre 2013
Descrizione dello spettacolo ‘Orchidee’ - regia di Pippo Delbono - Arena del Sole - Bologna - 21/23 novembre 2013
C’è la frase, scritta da Jack Kerouac,
Questo mondo mi fa schifo ma non c’è un
altro mondo nel quale andare…
C’è il Nerone imperatore agghindato
come da copione dell’opera di Mascagni. «Nerone», ci dice Pippo Delbono, che
siede in fondo alla platea, nell’oscurità, con la sua giacchetta gialla, «non
fu destituito dal trono a causa dello scandaloso comportamento libertino, bensì
obbligato a soccombere dal senato romano, al quale si era opposto». Ma dài.
C’è papa Ratzinger che davanti
alle acrobazie ginniche della squadra di giovani e muscolosi atleti, si addormenta
(oppure dorme già). C’è l’ex consigliere Nicole Minetti, prima tutta chiappe in
pedana poi nell’intervista che dice: «Prima di tutto io sono una donna». Ma pensa.
Questo mondo mi fa schifo ma non c’è un altro mondo nel quale andare…
No.
C’è invece il braccio esanime ed
esangue di una madre deposta sul letto di morte, le ultime parole pronunciate (quali
saranno le nostre, eh? Ve lo siete chiesto mai?), e poi le parole che ha
pronunciato quando era in vita, che hanno fatto ridere e imbarazzato, perché
mettevano in piazza i fatti della famiglia, ché li raccontava al panettiere…
(Pippo Delbono, ti capisco: succedeva anche a me. Mia madre se ne usciva sul balcone
e parlava con la vicina del balcone dall’altro lato della strada!)
Questo mondo mi fa schifo ma non c’è un altro mondo nel quale andare…
Così.
E di fronte alla morte - ditemi
un po’ voi, che forse lo sapete - delle massime dei filosofi, degli slogan
poetici, letterari, che cosa diavolo ce ne facciamo? Ditemelo su.
«Avete qualcosa in contrario», dice
il regista, «a che io vi racconti questi fatti, di me?... Chi lo stabilisce,
che a teatro ci si debba divertire?». E per non scontentare del tutto il
pubblico, spedisce in platea un attore, a offrir due pasticcini.
«Il teatro, dice Bergman», ci
dice Delbono, «sono due persone che s’incontrano. Tutto il resto è secondario».
È proprio così.
Finché sul palco si materializza un’attrice,
che ci confessa che questo regista, il teatro lo annoia proprio… e così,
anziché recitar la sua parte, lei ha avuto l’idea di organizzarci una bella
asta: la messa in vendita dei quadri di quella sua parente defunta… «Per tirar
su un po’ di soldi», dice, «di questi tempi». La vita è fatta di opportunità,
relazioni, si capisce.
Questo mondo mi fa schifo ma non c’è un altro mondo nel quale andare…
Perché c’è la vita vera e la vita
fasulla. Carne vs. plastica.
Le orchidee, per esempio, sono un
perfetto caso di ‘imitation of life’. Per capire se un’orchidea è autentica, è infatti
necessario toccarla. Conviene allora - così dice una signora alla sua amica, ci
racconta il regista – tenerne in salotto due esemplari: uno coi petali, l’altro
finto.
Ma allora, direte voi, che cosa
aspettiamo a scatenare la rivoluzione?
Su questo punto, Jean-Paul Marat
taglia corto: «A che serve fare la rivoluzione?» dice, «siamo solo dei
pezzenti». Tzàc. Oppure «pachidermi», dice Pippo Delbono, «animali molto soli».
Molto, dice.
E il suo ballo sul palco,
squinternato, sbilenco, è solitudine, follia pura. E tra i due, la follia pura
è la dimensione più sana, credetemi.
E gli attori di questa stramba
compagnia… il sordomuto Bobò, per esempio, gettato sul palco dopo quarant’anni
di manicomio… be’, quelli siamo noi. Bobò c’est moi.
Questo mondo mi fa schifo ma non c’è un altro mondo nel quale andare…
Non c’è, no.
È corretta la frase di Anaïs Nin,
quando dice: «L’artista si fa artista perché ha bisogno di crearsi un mondo in
cui vivere, un luogo nel quale ricrearsi, quando è spossato dalla vita». Esatto,
Anaïs.
domenica 24 novembre 2013
Francesco Petrarca - 'E lubrico sperar su per le scale' feat. Lucio Dalla - 'Disperato erotico stomp'
E vidi a qual servaggio, et a
qual morte,
a quale strazio va chi s’innamora:
errori e sogni et imagini smorte
eran d’intorno a l’arco
triumfale,
e false opinioni in su le porte,
e lubrico sperar su per le scale,
e dannoso guadagno ed util danno,
e gradi ove più scende chi più
sale;
stanco riposo e riposato affanno,
chiaro disnore e gloria oscura e
nigra,
perfida lealtate e fido inganno,
sollicito furor e ragion pigra,
carcer ove si vèn per strade
aperte,
onde per strette a gran pena si
migra,
ratte scese a l’entrare, a l’uscir
erte,
dentro confusion turbida e
mischia
di certe doglie e d’allegrezze
incerte.
[Francesco Petrarca, op.cit.,
pp.190-192]
sabato 23 novembre 2013
Le mani armate, e gli occhi avolti in fasce
Or so come da sé ‘l cor si
disgiunge,
e come sa far pace, guerra, e
tregua,
e coprir suo dolor quand’altri il
punge;
e so come in un punto si dilegua
e poi si sparge per le guance il
sangue,
se paura e vergogna avèn che ‘l
segua;
so come sta tra’ fiori ascoso
l’angue,
come sempre tra due si vegghia e
dorme,
come senza languir si more e
langue;
so de la mia nemica cercar
l’orma,
e temer di trovarla, e so in qual
guisa
l’amante ne l’amato si
transforme;
so tra lunghi sospiri e brevi
risa
stato, voglia, color cangiare
spesso,
viver stando dal cor l’alma
divisa;
so mille volte il dì ingannar me
stesso;
so, seguendo ‘l mio foco ovunque
e’ fugge,
arder da lunge et agghiacciar da
presso;
so come Amor sovra la mente
rugge,
e come ogni ragione indi
discaccia,
e so in quante maniere il cor si
strugge;
so di che poco canape s’allaccia
un’anima gentil, quand’ella è
sola,
e non v’è chi per lei difesa
faccia;
so come Amor saetta, e come vola,
e so com’or minaccia et or
percote,
come ruba per forza e come
invola,
e come sono instabili sue rote,
le mani armate, e gli occhi avolti
in fasce,
suo promesse di fé come son vòte;
come nell’ossa il suo foco si
pasce,
e ne le vene vive occulta piaga,
onde morte e palese incendio
nasce.
[Francesco Petrarca, Triumphi,
Milano, Mursia, pp.156-161]
domenica 27 ottobre 2013
domenica 20 ottobre 2013
giovedì 17 ottobre 2013
Le emozioni, soprattutto se estreme, è bene esternarle, dicono. Trasformarle in suoni, musica, parole. E' così che le emozioni si sublimano, dicono. Chi lo dice? Gli psicologi, certo. Naturalmente. Be', la vostra cazzuta sublimazione, cari psicologi, per me, ve la potete infilare su per il culo. Del mio dolore, io non voglio che rimanga alcuna traccia.
sabato 5 ottobre 2013
giovedì 3 ottobre 2013
lunedì 30 settembre 2013
Descrizione del Pdl
Sono classificati tra i mammiferi
coprofagi, i maiali. Quelli neri, in particolare, allevati in Asia, si nutrono
esclusivamente di escrementi umani. La loro carne, apprezzatissima, è servita laggiù in
ristorantini tipici specializzati.
domenica 29 settembre 2013
Descrizione del Pd
Sono animali, i bradipi, che del fatto che sono morti, se ne accorgono dieci minuti dopo che non ci sono più.
lunedì 9 settembre 2013
sabato 3 agosto 2013
venerdì 2 agosto 2013
Aneddoto sesto
«In una giornata così», disse un giorno il critico teatrale Harold Hobson, che con Samuel Beckett partecipava a un match di cricket, «è bello essere al mondo». «Non esageriamo», disse Beckett.
giovedì 1 agosto 2013
martedì 30 luglio 2013
Gallagher e il tortellino
«Il giornalista
gastronomico che dovrai intrattenere sul tortellino è italiano», m’informò
Clizia.
«Uhm».
«Un torinese».
«E perché non
si arrangia da solo?».
«Mika, mi
raccomando. Fammi fare bella figura. Chissà mai che non ci mandi qualche
collega danaroso. Incantalo coi tuoi begli occhioni. Fallo sognare». Aggiunse
che aspettava l'arrivo di un truccatore brasiliano, ospite nel suo bed and
breakfast, in città per la rassegna 'Cosmoprof', la fiera dei cosmetici e
profumi.
Il torinese
alloggiava al Grand Hotel, l'ingresso che si affaccia sulla strada dello
shopping compulsivo.
C'è un flusso
di gente, che nei pomeriggi festivi percorre via dell'Indipendenza; in giù
diretto alla stazione e indietro di nuovo puntando verso il centro. E poi da
capo, un movimento incessante, fino al tramonto. Le vetrine assorbono il fiato
di questi passeggiatori, le mani che ci si appoggiano sopra per riconoscere
un'offerta speciale.
Una folla che
forma un'etnia speciale; massicce catene stampate sul petto degli uomini e
minigonne inguinali a fasciare il sedere delle donne. Dove abitino, gli shopper
del weekend, dove vadano, quando lasciano la città, non si sa. Max dice che
salgono su dai tombini, nelle notti di plenilunio e laggiù fanno ritorno. Li
chiama 'i mostri del ciclo di Cthulhu'.
Il rettilineo
delle vetrine si interrompe in corrispondenza del Grand Hotel.
Quando arrivai,
quel pomeriggio, la passerella che accompagna la scalinata dell'ingresso era
affollata da una calca disumana. Fotografi, telecamere, giornalisti, gruppi di
adolescenti con indosso la maglietta degli Oasis. I componenti della rockband
dormivano là.
Esibii il mio
tesserino da guida. Con un inchino, i due uscieri in livrea mossero le pesanti
porte vetrate dagli infissi oro.
Entrando nella
hall, subito si è investiti da una vampata di aria coloniale. Il lampadario in
vetro di Murano getta sull'ambiente una luce sfavillante. Uno scalone ondulato,
attraversato dal tappeto di velluto rosso, come se ne vedono in certe
scenografie hollywoodiane degli anni Quaranta, sale su ai piani alti. Ma di Rita
Hayword, neanche l'ombra. Vomita a terra coppie di obesi turisti americani, in
shorts e ciabatte da spiaggia.
Mi sedetti in
una delle poltroncine decorate con le iniziali GH, addossate alla parete. Sulla
consolle, c'è uno strano soprammobile. Una forma a metà tra vaso e cuore umano,
sorretta da un piedistallo. Al centro del tavolo in stile Impero, troneggia un
bouquet di orchidee finte al profumo di rosa.
La sala era
deserta, tranne che per quattro energumeni, i bicipiti modellati sotto la
maglietta siglata STAFF, che stazionavano di fianco all'ascensore e ai piedi
dello scalone, di guardia.
Mentre
aspettavo il giornalista, sfilai una delle dieci copie gratuite di un
quotidiano nazionale e m'immersi nella lettura. Lessi dello sciopero generale
proclamato dai sindacati come protesta contro lo sgravio fiscale che la nuova
finanziaria riserva ai redditi alti. Finché l'ascensore si aprì e apparve il
torinese.
«Scusi il
ritardo», disse porgendomi la mano, grassoccia ed esangue. «Quando si viaggia,
sono sempre infinite noie. L'inferno sono gli altri, direbbe Sartre».
Non si trattava
del solito ragazzotto. Era un uomo sui cinquanta, doppiopetto, baffetti
modellati in una sagoma stile Risorgimento. Mi disse subito che non intendeva
schiodarsi dall'hotel.
«Detesto
camminare, mi perdoni, la fatica fisica. Mi muovo solo per dedicarmi a
interviste eccellenti: Paul Bocuse, Heinz Beck, Gualtiero Marchesi. Quando
davvero ne vale la pena, mi capisce». Si guardò intorno con aria da padrone.
«Ci possiamo senz'altro accomodare laggiù».
Indicava la
scrivania laccata che affianca lo scalone.
«…La metto
subito al corrente dei miei piani, signorina. Vede, sto scrivendo un libro
sull'origine e storia sociale del tortellino, gloria gastronomica della vostra
meravigliosa città. Un volume che andrà in stampa a fine anno, per un grande
editore».
Fui presa da un
attacco di panico. Cara Mika, mi dissi, prima o poi sarebbe successo, e in
questo caso, prima del previsto. Che nonostante le assicurazioni di Clizia,
l'esperto di gastronomia sarebbe arrivato. E lo avrebbe scoperto, che di
suinicoltura intingoli e gourmet, non ne sai un'acca. Che sei una guida
gastronomica sì: ma per soldi.
Mi sentii ad un
bivio. Alla fine di una carriera mai voluta, costruita sulla menzogna. Fissai
la parete davanti. Sopra è dipinta una scena boschereccia, una donna a cavallo
e il suo cane. Pensai che la donna si fosse persa.
In quel
momento, in cima alle scale, apparve un Gallagher: faccia smunta dietro enormi
lenti azzurrine, chioma divisa in ciuffi rigidi sulla nuca. Lo seguivano due
bionde dalle labbra sporgenti. Appena si venne a trovare lungo la direttrice
dell'ingresso, da fuori si levarono le urla: «Liam! You are the best!».
«Il popolino»,
disse il giornalista scuotendo la testa. «Ha ciò che si merita, non trova?».
Il Gallagher si
tolse gli occhiali da sole. Nel suo sguardo c'era una fredda indifferenza.
«Le rockstar
dei giorni nostri», commentò il torinese, «hanno la sfortuna, o la fortuna, a
seconda dei punti di vista, di essere sempre la copia di qualcuno. L'originale,
purtroppo, è scomparso da tempo... D'altra parte», proseguì, «a chi interessa
più l'originale? Mette spavento. E' qualcosa di incomprensibile. Agita le
menti. Genera inquietudine… Ecco, io voglio da lei proprio ciò che quel signore
laggiù rappresenta. Che lei si concentri, e mi dia lo stereotipo”.
Lo guardai
incredula. Lo stereotipo?
«Sì, un
resoconto dettagliato delle sciocchezze, corbellerie che circolano sul
tortellino e nel mondo ne alimentano la fama. Ciò che la gente vuole sentirsi
dire su questa specialità. Per trovarla unica, amarla, scovargli una sua
sublime poeticità».
Fantastico,
pensai, vuole da me un cumulo di balle.
«Mi sono
spiegato?» domandò.
«Certo», dissi,
«certamente».
Mi sentii a mio
agio, di nuovo nel mio ruolo.
E neppure
occorre inventare. L'aneddoto esiste già. La faccenda dell'ombelico, intendo.
Una storiella goliardico-erotica, che tutti gli abitanti della città conoscono.
Parla di un
giovane garzone di bottega che viene un giorno spedito dal fornaio suo padrone
a prendere la farina che serve per impastare il pane.
Il giornalista
cominciò a stenografare, euforico: «Benissimo! Vedo che io e lei ci intendiamo
alla perfezione!».
«Questo ragazzo
si mette in cammino», raccontai, «e raggiunta la casa del fornaio, va dritto
nel magazzino, a caccia dei sacchi di farina».
«A piedi»,
disse il giornalista.
«Be', sì».
«E d'altra
parte, in quale altro modo poteva spostarsi un povero figliolo di campagna?
Mica c'erano gli Intercity».
«Quando si
trova nel magazzino, il ragazzo cerca e non trova nulla», proseguii.
«Disorganizzazione».
«Come?».
«Vada pure
avanti. Per la sua strada che io la seguo».
«Il giovane
sale dunque al primo piano, dove è l'abitazione del fornaio».
In quel
momento, girando lo sguardo verso l'uscita, vidi qualcosa precipitare
ruzzolando nella hall dell'hotel, planare fin sotto la reception, istantaneo
come un bolide. Era un corpo femminile. Una ragazza, piccola e rotonda, t-shirt
con sopra scritto OASIS TOUR e sotto, nomi di città europee, date.
«Liam!»
strillò agganciando i jeans del Gallagher. «Liam! I love you!». Li fece scendere e scoprì una striscia di
boxer.
Lui, che non
era Liam, ma il Gallagher sbagliato, fece un giro su se stesso, pettinandosi.
Con mossa istantanea, uno degli energumeni si avvicinò e la staccò. Il
Gallagher si tolse la felpa e la lanciò nelle mani di lei.
«Next time I
will give you my pants, babe», che
la prossima volta, le avrebbe smollato le mutande.
Proseguii nel
mio racconto.
«Il giovane garzone cammina in punta di piedi sul pavimento scricchiolante della casa del fornaio, incerto su quale stanza visitare, su dove possono essere custoditi i sacchi di farina».
«Il giovane garzone cammina in punta di piedi sul pavimento scricchiolante della casa del fornaio, incerto su quale stanza visitare, su dove possono essere custoditi i sacchi di farina».
«’Scricchiolante'»,
ripeté il giornalista. «Molto bene. Questa parola è un capolavoro di banalità».
Caro torinese,
stavo per dirgli, io sono un'impenitente manipolatrice di banalità!
«Tutt'intorno
regna un silenzio assoluto, non vola una mosca», raccontai invece. «La casa del
fornaio sembra vuota. Finché arrivando in fondo al corridoio, vede una porta…».
Smise di scrivere.
Appoggiò il taccuino sulla scrivania, si allentò la cravatta. Da fuori
provenivano urla rabbiose. La felpa del Gallagher era stata lacerata. Mille
mani cercavano di accaparrarsene un pezzo.
«Scena sublime!
Impagabile! Un tempo ci si litigava le reliquie dei santi… Ogni epoca ha le sue
santità promesse. I suoi mausolei. Ma mi scusi l'interruzione. Il suo racconto
è molto interessante, sa».
«Il garzone si
avvicina alla porta», dissi. «Questa è socchiusa. Lui la spinge appena, apre
senza far rumore. E cosa vede?».
Il torinese
impugnò la penna: «Oh, uno stuolo di fotografi, giornalisti, tecnici del
suono…».
«E invece no:
vede una donna».
«Ah, naturalmente! Toujours les
femmes!».
«E chi era, se
non sono indiscreto?».
«La moglie del
fornaio».
«Ma certo. E
chi altro poteva essere, in quel luogo a quell'ora…».
«Sta dormendo.
E' distesa, abbandonata nel letto, i capelli sciolti sul cuscino. Si gira e si
rigira tra le lenzuola».
«'Abbandonata
nel letto': orrenda espressione!» disse lui stenografando veloce. «Très bien!».
«Sì, è un
sonno, il suo, popolato di incubi… Si scopre», raccontai, «le lenzuola
scivolano a terra e la camicia da notte si solleva. Il garzone la vede di
spalle, poi si volta su un fianco, e il garzone adesso la può vedere
frontalmente».
«Mm», disse il
giornalista, «era una strega o che cosa?».
«Sulla pancia
della donna c'è uno splendido ombelico».
«Apperò! Bene! Super!».
«Il garzone
torna a casa. Ma quella notte non riesce a prendere sonno. Per colpa
dell’ombelico, che l'ha turbato nel profondo».
«Autoerotismo»,
disse il giornalista.
«Non riesce a
toglierselo dalla testa. Ci pensa e ripensa finché, nel cuore della notte, ecco
che il garzone si alza».
«La masturbazione
non sempre è soddisfacente».
«Si sente
ispirato. Rapito. Inebriato».
«'Inebriato'»,
ripeté il giornalista scrivendo.
«E inventa
questo genere di pasta che nella forma rievoca appunto quella di un ombelico»,
conclusi.
«E poi?».
«Basta. La
storia finisce così».
Ci stringemmo
la mano.
«Ha fatto un
eccellente lavoro», si complimentò il torinese. «Ma davvero la pagano per
raccontare queste stronzate?».
In quel
momento, l'ascensore vomitò fuori Liam, il Gallagher giusto. Camicia safari,
frangia interrotta dai Rayban.
[dalla Guida
gastronomica]
venerdì 19 luglio 2013
Mr Pig
Il TdM, o
Tempio della Mortadella, è il luogo nel quale si celebra l'apologia
dell'insaccato e della gastronomia che, nel mondo, ha reso famosa la città. Un
negozio in continua espansione. Prende nuovi spazi, aggiunge stanze, sempre di
più sedimentandosi nel grande palazzo che da sempre lo ospita. Sul fronte
dell'edificio si stacca un bovino rampante, lo stemma della corporazione dei
macellai. Esplorandolo ci si può immaginare come la carne e i suoi molteplici derivati
possano davvero reggere l'equilibrio del mondo.
Di fianco
all'ingresso, si siede un frate. Raccoglie offerte e rilascia in cambio un
santino. Saluta i turisti chiedendo da quale parte del mondo provengano.
Il re del TdM,
o demiurgo dell'insaccato, è Mr Pig: faccia rosa lucido, sulla quale la pelle
appare tesa e levigata. La forma del corpo, a imbuto, richiama un mortadellone
in taglia XL. Tutti assomigliamo un po' a ciò che amiamo.
La settimana
precedente, mi aveva annunciato che stava allestendo una nuova stanza.
«La inauguriamo
tra qualche mese. Mettiamo la tavola per tirare la sfoglia. I giornalisti
potranno in prima persona lavorare col mattarello e mangiarsi alla fine quello
che hanno prodotto. Tu cosa mi consigli?».
«L'importante è
che sia gratis».
«Ah, quando c'è
da leccarsi le dita, tutto il mondo è paese», aveva convenuto Mr Pig.
Entrammo.
Dopo
pochi minuti, il gallese passeggiava beato tra le scansie, come in vacanza
premio.
Appena mi vide
in compagnia, Mr Pig si defilò. Parlare coi giornalisti non gli piace. L'unico
modo per obbligarlo alla conversazione è fargli l'improvvisata; coglierlo
mentre sta annusando un culatello appena aperto, depositandolo
sull'affettatrice.
«Mr Pig!» lo
chiamai. «Questo signore è venuto apposta dalle nebbie del Galles a quelle
padane per imparare tutto sui maiali! Che ci racconta qualcosa?».
Lui mi guardò
con occhio truce. Poi, annusando l’aria, sorrise.
Perché Mr Pig è sensibile ai
complimenti. E vuole che del TdM se ne parli bene e in tutto il mondo; crede
alla magia della pubblicità.
«Possiamo
fare un'intervista?» domandò il giornalista.
«Come
no!» ripose il demiurgo dell'insaccato, «I
English», parlo inglese. «Great!».
E non feci in tempo a dirmi disponibile alla traduzione, che strofinandosi le mani nel grembiule, attaccò:
«My uncle open the shop second world war need money no pigs poor people sell
mortadella, understand?».
Il giornalista
rimase con la biro in mano, interdetto.
«…Sixty per cent fatty meat forty
per cent lean meat pigs no believe donkey», proseguì Mr Pig, «understand?».
«E' sempre un
piacere ascoltarla, Mr Pig», dissi. «Lei è una delle personalità che più
rappresentano la cultura della nostra città. Un portavoce esemplare».
«Vaglielo a
spiegare te, agli stranieri, che è tutta una questione di odori», mi sussurrò
mentre traducevo al gallese. «Chi ce l'ha il coraggio di dire a questi
disgraziati che la mortadella non esiste?».
Il giornalista
cominciò a toccarsi lo stomaco. A quel punto Mr Pig disse che si scusava, un
impegno reclamava la sua presenza altrove. In questi casi, quando il capo se la
fila, è prudente rinunciare allo spuntino a sbafo. Quella volta, però,
cogliendo la disperazione nel gorgoglio dello stomaco del gallese, e volendo
premiarlo per avermi seguito al museo archeologico, decisi di sfidare la sorte.
Mr Pig stava per
rintanarsi, quando azzardai: «Che al nostro amico, gli fa assaggiare un tocchetto
della sua specialità?».
Lui si voltò,
lo sguardo di chi ti augura di morire di fame.
Vidi il piattino che, con gesto
funereo, sollevava dal bancone e porgeva al giornalista. I cubetti di
mortadella erano color grigio antracite, come ci avessero siringato dentro
fiotti di cemento.
«Prego», disse
con un sorrisetto vendicativo. E capii che non potevo fare proprio niente per
salvare questo ragazzone così elegante, nelle sue scarpe made in Italy.
Morsicò il
cubetto, masticò piano. Inghiottì.
«Purtroppo non
è proprio freschissima», ammise Mr Pig.
Alle sue
spalle, la cassiera sbarrò gli occhi, mimando con le dita il numero quindici. I
cubetti assassini riposavano nel piattino da quindici giorni.
Mentre
uscivamo, e il gallese si precipitava a vomitare il boccone nel cestino della
spazzatura che il frate gli indicava, sbirciai il demiurgo dell’insaccato per
un'ultima volta. Non era un uomo, ma una maschera beffarda.
«Eh sì, cari
miei», ripeteva appoggiando delicatamente una forma sull'affettatrice, «la
mortadella non esiste proprio!». Nei suoi occhi lampeggiava un guizzo di
piacere.
[dalla Guida
gastronomica]
giovedì 18 luglio 2013
Il Komitato
Il
24 giugno 1971, così è riportato sullo statuto che abbiamo scritto e firmato,
decidemmo la fondazione del Komitato. Oltre alla Rossana e a me, ne sono membri
e fondatori Sandro, la Sonia e sua sorella Mariangela che chiamiamo Mari.
Sandro, l'anno prossimo andrà in quinta
elementare, come la Sonia. È più grande della Mari che invece frequenta la
terza. Arriva sempre alla fornace a bordo della sua bici, che è una Graziella
verde militare che apparteneva a sua nonna, col sellino tagliato dal quale esce
l'imbottitura, e il manubrio che espelle pezzi di ruggine.
Dice che la Graziella, non la
cambierebbe con nessuna bici da cross al mondo, perché anche se è da femmina, è
la più veloce di tutte, e quando frena, inchioda sull'asfalto. Nel cestino,
trasporta sempre delle scatole di polistirolo che gli procura suo padre nella
fabbrica di pesce surgelato dove lavora al magazzino.
«Col polistirolo», dice, «si può
fabbricare tutto quel che si vuole».
Ogni giorno arriva con delle scatole
nuove e di grandezze differenti. Prima di poterle usare, però, deve lasciarle
sul balcone del soggiorno di casa sua almeno per una notte, perché quando suo
padre gliele porta, puzzano di sardine che fanno vomitare.
Sandro si siede al tavolo del
capannone, e con un coltellino divide i pezzi di polistirolo creando delle
sagome a incastro. In pochi minuti costruisce un oggetto.
«Cos'è?» gli chiede la Rossana.
«Un container subacqueo. Per
trasportare lo squalo balena pescato in Groenlandia, dentro un sottomarino fino
all'Italia».
Il suo eroe è Mao Tse-Tung, che sarebbe il
presidente della Cina.
Un giorno, al manubrio della Graziella,
appese una canottiera con sopra scritto Rivoluzione
culturale. Per qualche tempo, la bandiera sventolò all'ingresso del
capannone. Finché un pomeriggio la trovammo per terra, sul prato. Era strappata
e sulla parete qualcuno aveva scritto Boia
chi molla. La Mari cancellò con la tempera di colore bianco. Ci dipinse
sopra cinque margherite, dai petali ciascuno di un colore diverso e dietro il
fiore, un arcobaleno rovesciato.
«Perché l'hai disegnato al contrario?»
le chiese Sandro.
«Così pensano che siamo dei sovversivi
e non tornano mai più». E infatti mai più tornarono.
Sandro vuole diventare ingegnere
navale; lavorare nel cantiere del Canale di Suez, sul Mar Rosso, dove approdano
le navi petroliere degli sceicchi arabi, che trivellano gli oceani e ripartono
per i mari del Sud cariche di barili.
«Io invece all'Università studierò le
leggi dell'Italia», dice la Sonia. «Voglio partecipare ai processi in tribunale
e far mettere in prigione il colpevole».
La Sonia è bionda e calcolatrice. Ha
sempre una risposta pronta e uno sguardo gelido che mette in soggezione. Il
padre suo e della Mari lavora nell'ufficio della Compagnia dei Telefoni. Ha gli
stessi occhi celesti della Sonia, che quando piove diventano grigioverdi come
l'acqua delle pozzanghere.
Le piace dare gli ordini. Alcuni giorni
dopo che ci eravamo installati nella fornace, e che le regole del Komitato
ancora non erano stabilite, lanciò la sua proposta.
«Ogni membro fa il capo a turno»,
disse. «Questo mese di giugno comanda Sandro, nel mese di luglio, comanderò io».
Parlò in modo così risoluto che nessuno
subito ebbe il coraggio di esprimere la sua opinione, né dissentire. Finché la
Mari ruppe il silenzio.
«Io non sono d'accordo», disse.
«Perché? Sentiamo», fece la Sonia
ostile.
«La disciplina è un comportamento
dell'anima. Non si può comandare».
«E invece l'ordine deve essere imposto
da fuori».
La Mari scosse la testa.
Lei è l'opposto di sua sorella. Castana
e con le lentiggini sul naso. La pancia, i polpacci, le dita delle mani
perfino, tutto nella sua persona è un po' grassottello. Non assomiglia a
nessuno nella sua famiglia. «Secondo me», la prende in giro la Sonia,
«all'ospedale ti hanno scambiata nella culla». «Ti credi di essere simpatica?»
replica la Mari che è pacifica e non si offende mai.
In educazione artistica è la più brava
della classe. Di mestiere vuole fare l'arredatrice. «Deciderò i mobili», dice,
«per delle case con delle pareti trasparenti di vetro e legno, circondate da
alberi frondosi, costruite in mezzo a un parco senza recinto».
«Ciascuno è responsabile del suo
comportamento», disse quel giorno. «Se ognuno ha nel cuore una regola, spiegò,
questa diventa la linea che aiuta a distinguere il buono dal cattivo. E quando
si è capaci di decidere della propria vita», disse, «il bene che è per sé, lo è anche
per gli altri».
«E quale sarebbe la regola?» chiese la
Sonia diffidente.
«La coscienza», disse la Mari.
Da quando le ho sentito pronunciare
queste parole, penso che sia lei il membro più saggio del Komitato.
[da Le descrizioni]
mercoledì 17 luglio 2013
Vi hanno impedito di sapere chi siete
Lo spirito, la dignità mondana,
l'intelligente arrivismo, l'eleganza,
l'abito all'inglese e la battuta francese,
il giudizio tanto più duro quanto più liberale,
la sostituzione della ragione alla pietà,
la vita come scommessa da perdere da signori,
vi hanno impedito di sapere chi siete:
coscienze serve della norma e del capitale.
[Pier Paolo Pasolini, Ad alcuni radicali da 'La religione del mio tempo', op.cit., pag.115]
l'intelligente arrivismo, l'eleganza,
l'abito all'inglese e la battuta francese,
il giudizio tanto più duro quanto più liberale,
la sostituzione della ragione alla pietà,
la vita come scommessa da perdere da signori,
vi hanno impedito di sapere chi siete:
coscienze serve della norma e del capitale.
[Pier Paolo Pasolini, Ad alcuni radicali da 'La religione del mio tempo', op.cit., pag.115]
martedì 16 luglio 2013
Da Lice Puda
- Tu vieni, Gigino, stasera da
Lice Puda?
- Sì.
- Tu vieni, Jean, stasera da Lice Puda?
- Sì.
- Tu vieni, Enzo, stasera da Lice Puda?
- Sì.
- Tu vieni, Carmine, stasera da Lice Puda?
- No.
[Aldo Palazzeschi, Gigino Siccoli, Jean Polverini Badel, Enzo Tolu, Carmine Lazzarini, 15 febbraio 1915]
- Sì.
- Tu vieni, Jean, stasera da Lice Puda?
- Sì.
- Tu vieni, Enzo, stasera da Lice Puda?
- Sì.
- Tu vieni, Carmine, stasera da Lice Puda?
- No.
lunedì 15 luglio 2013
La rabbia è propria delle bestie
Su un tanto nemico sperare di
conseguire una vittoria senza sangue è piuttosto vana pazzia che generosa
fiducia […]. Far guerra a tali uomini cedendo a un breve impeto d’ira e
abbatterli, anche se lo possiate impunemente, non vedo che diletto possa avere
per voi; lo vedranno forse meglio di me gli animi accesi di coloro che a mo’ di
femmine godono dei dolori degli amici e della vendetta di ogni offesa. Ma è
cosa né inutile né onesta, e neppure umana: assai meglio è dimenticare l’ingiuria
che vendicarla, meglio placare il nemico che annientarlo […]; che se anche a
raggiungere l’uno e l’altro scopo ugual fatica occorresse, tuttavia la mitezza
è propria degli uomini, la rabbia delle bestie, e non di tutte ma delle più
ignobili e d’indole più feroce.
[Francesco Petrarca, Le familiari – Ad Andrea Dandolo, doge di Venezia, esortandolo a far pace coi Genovesi – op. cit., pag. 947]
mercoledì 10 luglio 2013
Non sei padrone dello stato, ma servo
«Tu dunque, finché è tempo,
medita a lungo», come dice quel giovane di Terenzio; considera, te ne prego,
ciò che fai, studia te stesso, esamina (e non ti sbagliare) chi sei, chi fosti,
donde vieni e dove vai, fin dove puoi spingerti innanzi senza offendere la
libertà, qual veste tu porti, quali impegni hai preso, quali speranze hai dato
di te, che cosa hai promesso: e vedrai che non sei padrone dello stato, ma
servo.
[Francesco Petrarca, Le familiari
– A Nicola – Cola di Rienzo – tribuno di Roma, sdegno misto a preghiera per il
suo mutato contegno – op. cit., pag. 895]
venerdì 5 luglio 2013
Per molti la cultura è uno strumento di pazzia, per quasi tutti di superbia
Per molti la cultura è uno
strumento di pazzia, per quasi tutti di superbia […]. Quel tale sa una quantità
di cose sugli animali feroci, sugli uccelli, sui pesci: quanti peli ha il leone
sulla testa, quanto piume l’avvoltoio nella coda, con quante spire il polipo
abbraccia il naufrago; come gli elefanti si accoppino volgendosi le terga e
come la loro gravidanza duri due anni […]; come la fenice si bruci sopra una
pira di legni aromatici e, bruciata, rinasca; come il riccio possa frenare una
nave spinta a qualsivoglia velocità, mentre fuori dell’acqua non ha forza
alcuna; […] che le talpe sono cieche e le api sorde, che – finalmente – di tutti
gli esseri animati soltanto il coccodrillo è capace di muovere la mandibola
superiore. Tutte cose false in grandissima parte […]. Ma anche se fossero vere
non servirebbero affatto a vivere felici. Di grazia, come può giovare conoscere
belve, uccelli, pesci, serpenti, e ignorare ovvero non curarsi dell’uomo […]?
[Francesco Petrarca, op.cit.,
Prose polemiche, pgg.713-715]
giovedì 4 luglio 2013
giovedì 27 giugno 2013
L’impegno del romanzo è con la realtà
Caro O, tu ignori un assioma del
mestiere del poeta: «Se una poesia è facile da scrivere, in quella poesia ci
deve essere qualcosa che non va». I sogni sono facili da scrivere; per questo
ci sarà sempre qualcosa di sospetto nei sogni in un romanzo, nei sogni
inventati.
[…] L’impegno del romanzo non è
con la realtà piuttosto che con la fantasia? Non è quello che ci dice Cervantes
quando scrive il suo testo seminale per il mestiere che facciamo tu ed io? Che
non ci possiamo inventare la vita secondo i nostri desideri man mano che
andiamo avanti, che dobbiamo affrontarla per quello che è?
[J.M.Coetzee, carteggio con lo
scrittore O, testo riportato su 'la Repubblica' di martedì - letto dall’autore nell’ambito
della Milanesiana 2013]
mercoledì 26 giugno 2013
So it goes #50
Canto, ancora canto: «Quello
che non ho... tatàtatàtaratatan… sono i tuoi denti d'oro… Quello che non
ho… è un pranzo di
lavoro… Quello che non ho…
tatàtatàtaratatan… è questa prateria… per correre più forte… della
malinc_ QUELLO CHE NON HO... TATATATATARATATAN», sciò! sciò! sciò! e nel mentre
sollevo le braccia, «SONO LE MANI IN PASTA… QUELLO CHE NON
HO», hep! hep! hep!, «E’ UN INDIRIZZO IN TASCA… QUELLO CHE NON HO», zac! zac!
zac!, «SEI TU DALLA MIA PARTE». E qui mi fermo. Perché? Così. Ho finito. Buona questa.
So, so.
So it goes un po’strano, dice
Kurt.
Strano?
Sì, strano, dice.
martedì 25 giugno 2013
So it goes #49
Così canto: «Quello che non ho... tatàtatàtaratatan… è una
camicia bianca… Quello che non ho…
tatàtatàtaratatan… è un segreto in banca… Quello che non ho… tatàtatàtaratatan… sono le tue pistole… per
conquistarmi il cielo… per guadagnarmi_ QUELLO CHE NON HO...
TATATATATARATATAN», così io canto ma adesso a squarciagola, «E’ DI FARLA FRANCA… TATATATATARATATAN…
QUELLO CHE NON HO... E’ QUEL CHE NON MI MANCA... QUELLO CHE NON
HO… SONO LE TUE PAROLE…». Così canto, così. So, so, so.
So it goes, dice Kurt.
mercoledì 22 maggio 2013
giovedì 16 maggio 2013
Aneddoto quinto
Il 14 maggio 1931 Arturo Toscanini
è invitato al teatro comunale di Bologna, a dirigere un concerto in memoria di
Giuseppe Martucci, emerito direttore d’orchestra della città. In prima fila, in
platea, siedono il ministro Costanzo Ciano e il funzionario Leandro Arpinati.
Al cospetto dei due gerarchi fascisti, al direttore viene impartito l’ordine di
eseguire Giovinezza poi l’Inno reale. Quello di ripetere gli inni
fascisti prima dei concerti fa parte del protocollo. «No», dice Toscanini.
Getta la bacchetta a terra. Lascia il palcoscenico. In teatro è scompiglio
generale. All’ingresso laterale ci sono delle camice nere che lo aspettano.
Schiaffeggiano Toscanini. Il maestro si precipita all’hotel Brun. «Deve
lasciare subito la città», ordina il federale Mario Ghinelli, «altrimenti
rischia grosso. La pelle, per la precisione». La sera stessa, il compositore
bolognese Ottorino Respighi lo accompagna in stazione e mette sul primo treno
in partenza per Roma. Il 19 maggio, all’unanimità, l’Assemblea regionale dei
professionisti e artisti dichiara: «Deploriamo il contegno assurdo e
antipatriottico del maestro Arturo Toscanini». È a quel punto che il direttore
scrive a Benito Mussolini in persona. Sì, avete capito bene: Toscanini, su
tutte le furie, scrive una lettera di ferrea protesta indirizzata direttamente
al Duce. Poi lascerà l’Italia, i fatti andranno come sappiamo. Eppure, non so
voi, ma a me l’immagine di Arturo Toscanini, seduto alla scrivania, intento a
comporre una lettera di lamentele al nano dittatore, mette di buon umore.
sabato 11 maggio 2013
Si contentano
Ricerco libri di diverso genere,
che siano insieme, per gli autori da cui sono stati scritti e per gli argomenti
che trattano, compagni graditi e assidui, e pronti a uscire in pubblico o a
ritornare nel cassetto al tuo comando, e sempre disposti a tacere e a parlare,
a rimanere in casa e ad accompagnarti nei boschi, a viaggiare, a starsene in campagna,
a chiacchierare, a scherzare, a incoraggiarti, a confortarti, a consigliarti, a
rimproverarti e a prendersi cura di te, a insegnarti i segreti delle cose, e le
memorie delle imprese, e norme di vita, e il disprezzo della morte, la
moderazione nella buona fortuna, la forza nell’avversa, l’imperturbabilità e la
costanza nel tuo comportamento: compagni dotti, lieti, utili e fecondi, che non
ti sono causa di noia, né di spesa, né di lamenti, né di mormorii o d’invidia,
né d’inganni. E mentre ci danno tanti vantaggi, si contentano di una piccola
parte della casa e di una veste modesta, senza aver bisogno di cibo né di
bevanda alcuna, mentre sono proprio essi che ai loro ospiti procurano
inestimabili ricchezze spirituali, vaste abitazioni, splendide vesti e
piacevoli conviti e cibi dolcissimi.
[Francesco Petrarca, La vita
solitaria – libro secondo, op. cit., p.557]
martedì 7 maggio 2013
martedì 30 aprile 2013
domenica 28 aprile 2013
Non date retta
Le comunità virtuali non
costruiscono nulla. Non ti resta niente in mano. Gli uomini sono animali fatti
per danzare. Quant’è bello alzarsi, uscire di casa e fare qualcosa. Siamo qui
sulla terra per andare in giro a cazzeggiare. Non date retta a chi dice
altrimenti.
[Kurt Vonnegut, op.cit., p.57]
sabato 27 aprile 2013
Descrizione dell’opera dell’artista Nam June Paik, esposta nella mostra ‘Nam June Paik in Italia’ – Galleria civica di Modena – fino al 2 giugno 2013
Stiamo parlando di un buffo
coreano che nel giorno delle sue esequie, alle quali presero parte artisti come
Merce Cunningham, Yoko Ono, Christo – celebrate il 3 febbraio del 2006, nella
prestigiosa cappella funeraria Frank E. Campbell, sulla Madison Avenue, NY –
lasciò scritto che voleva fossero distribuite delle forbici individuali, con le
quali ciascun partecipante agevolmente potesse tagliuzzare la cravatta del
proprio vicino. Così il caro estinto già aveva operato, nel lontano 1960, in
occasione di una celebre performance, durante la quale ‘aggredì’ il musicista John Cage, non
prima di avergli fatto lo shampoo.
TV Candle, 1975 |
Stiamo parlando di un tizio che
nel 1965, fece esibire una violoncellista in topless - sì, proprio così! -con due
microvideo spenzolanti agganciati ai seni, sul palco del Carnegie Hall, a un
certo punto sostituendosi al violoncello stesso (Sextronic Cello, 1965). E l’esecuzione fu interrotta, naturalmente,
Charlotte Moorman in fretta e furia fatta rivestire, accompagnata in questura.
«Forse voi siete una precorritrice!» le disse il giudice, «forse tra dieci anni,
queste cose, al Carnegie hall, si potranno fare!». Non ci conterei.
Parliamo dell’artista che è stato l'autore del
primo programma televisivo intercontinentale, in simultanea trasmesso in
Europa, America, Asia, una diretta nel primo giorno dell’anno (Good Morning Mr. Orwell, 1984). E quando
gli domandarono: «Perché la Tv?», Nam June Paik candidamente rispose: «Sono un
povero uomo, provengo da un povero paese, dunque sempre devo tenere presente il
mio pubblico». Olè.
Lo si nomina come artista visivo,
Nam June Paik, ma si fa per dire, dato che al pari dei suoi colleghi del
movimento Fluxus, di pennelli, colori e tele, se ne infischia. Studia musica al
Conservatorio, piuttosto, tra il Giappone e l’Europa. Parte dalla dodecafonia di Arnold
Schoenberg, e va a finire coi sintetizzatori della musica elettronica; in
Germania entra nell’équipe di Karl-Heinz Stockhausen. Sembra a caccia di scandalo, e invece
è uno che in realtà fa sul serio, eccome.
In questa mostra, che assolutamente
vi consiglio, si vuol far vedere il legame che ebbe con il nostro paese, che
l’artista diceva di amare soprattutto in virtù del suo amore per la musica
d’opera. «Adoro l’opera lirica», diceva, «perché in essa, come nella musica
elettronica, c’è tutto: musica, spazio, movimento».
Maria Callas, 1995 |
Camminando da una sala all’altra,
vengono in mente le riflessioni che Nam June Paik sempre s'è fatto sul
rapporto Oriente/Occidente (Young Buddha
on Duratrans Bed, 1989-1992), laico/ religioso. Sacro e Profano, per esempio, 1993, mostra una provocante signorina
nuda che ammicca facendo capolino oltre due monitor televisivi, mentre sopra di
lei, nella stessa posa, se ne sta distesa una serafica divinità orientale.
A proposito di sacro e profano, tengo
a ricordarvi che a questo burlone performer, armato della prima telecamera
lanciata sul mercato dalla Sony, venne l’idea di filmare il traffico di New
York, nei convulsi giorni che accompagnarono la visita di papa Paolo VI (Café Gogo, 1965). Per quelli di voi ai
quali interessano i primati, corre leggenda che si tratti del primo video
d’arte della storia.
Le opere dedicate all’Italia,
alla sua geografia turistica, sono dei piccoli monitor dalle cornici
scintillanti, oltremodo trash, incastonate di pietre, con l’antenna da insetto
meccanico ficcata in cima. Contengono simboli orientali, figurine di personaggi
famosi, stereotipi. C’è una Venere botticelliana, per esempio, la conchiglia-piedistallo
che le si apre sotto i piedi, il golfo di Napoli sullo sfondo, che ha la faccia
del segretario di stato americano (Hillary
Clinton, 1997).
A proposito di Hillary, bisogna registrare un aneddoto, davvero spassoso. Nel 1998, Nam June Paik – già famoso, Leone d’oro alla Biennale del 1993 - in occasione di una cena ufficiale, fu invitato dai Clinton, alla Casa Bianca. L’artista, che si muoveva all’epoca in carrozzella, decise di presenziare alla cerimonia servendosi di un deambulatore, che riteneva ausilio motorio più dignitoso e consono alla formalità della situation. Si racconta che all’improvviso, mentre faceva per stringere la mano alla First Lady, i pantaloni gli scivolarono giù, scesero fino alle ginocchia, e che sotto fosse praticamente nudo. La Clinton andò su tutte le furie, of course. Un affronto politico? Il re è nudo, appunto? Una fatalità? Non s’è mai saputo.
A proposito di Hillary, bisogna registrare un aneddoto, davvero spassoso. Nel 1998, Nam June Paik – già famoso, Leone d’oro alla Biennale del 1993 - in occasione di una cena ufficiale, fu invitato dai Clinton, alla Casa Bianca. L’artista, che si muoveva all’epoca in carrozzella, decise di presenziare alla cerimonia servendosi di un deambulatore, che riteneva ausilio motorio più dignitoso e consono alla formalità della situation. Si racconta che all’improvviso, mentre faceva per stringere la mano alla First Lady, i pantaloni gli scivolarono giù, scesero fino alle ginocchia, e che sotto fosse praticamente nudo. La Clinton andò su tutte le furie, of course. Un affronto politico? Il re è nudo, appunto? Una fatalità? Non s’è mai saputo.
E il bello sta proprio lì: con
Nam June Paik, non si sa mai dove si va a parare.
Eppure l’opera che io preferisco
di questo artista provocatore, e che ho ritrovato esposta, è uno dei lavori più
delicati e poetici nei quali, ragionando di arte contemporanea, mai mi sia
imbattuta. È una scatola televisiva, niente poco di più che un involucro vuoto,
di un vecchio apparecchio degli anni Sessanta, che al suo interno custodisce
un’esile candela accesa (For Philip,
1975). Philip Corner, il pianista al quale l’artista la regalò, racconta che
quel giorno, ricevendolo nel suo loft newyorkese, Nam June Paik gli indicò una
gran massa di carcasse televisive, che teneva ammucchiate in un angolo, e gli disse: «Scegline una. Poi,
a casa, mettici dentro una candela». «Che tipo di candela?» disse Corner. «Una
qualsiasi», disse Nam, «basta che sia accesa».
Ecco, per me, in quel ‘basta che
sia accesa’, c’è il cuore di ciò che Nam June Paik ci ha voluto dire.
venerdì 26 aprile 2013
giovedì 25 aprile 2013
Gli altri dormono [Intervista a Beppe Fenoglio di Gino Nebiolo, "Gazzetta del Popolo", 9 ottobre 1962]
Noi dormiamo sotto il peso dei nostri difetti provinciali e ci siamo talmente abituati che non li sentiamo più. La borghesia albese aveva, prima del fascismo, un peso ed un senso. Il fascismo l'ha distrutta o assorbita. Avevamo quattro o cinque giornali che provocavano epiche risse, persino duelli con le loro vivacissime competizioni elettorali. Chi se li ricorda?
Prima della guerra, quando ero studente, vi erano insegnanti che distribuivano cultura anche fuori dalle aule scolastiche. Il prof. Petronio, oggi ordinario di cattedra universitaria, ci insegnò a leggere Proust, Svevo, Melville. Il prof. Chiodi, massimo studioso di Heidegger in Italia, anch'egli oggi ordinario di cattedra universitaria, sapeva parlare ai giovani a scuola e nelle sale dei caffè e spalancava menti e coscienza.
Quanti di noi andammo partigiani perché sapevamo che c'era anche lui? E quanti gli devono la formazione intellettuale e civica? Ora gli altri dormono. Penso che leggano poco, perché, bene o male, chi legge, come dice Fichte, deve alla fine restituire, cioè produrre: qui non si produce nulla ed i giovani, per quel che ne so, preferiscono il pocherino, le fiacche conversazioni di paese, i film del sabato sera.
Sanno che scrivo, è già molto. Forse qualcuno compra i miei libri, ma non ho mai conosciuto un giovane che mi dicesse con franchezza: ho letto il tuo libro, non mi è piaciuto, discorriamone insieme. Li leggono perché mi conoscono, per una curiosità banale, per ragioni sottoculturali. In tanti anni che scrivo di Alba e su Alba e in Alba i soli contatti con i giovani sono stati: di una ragazza che mi ha sottoposto il suo diario intimo, un po' indecente, e di un ragazzo che voleva consigli su certe poesie. È poco? Ma Alba, ottusa da un lungo sonno, distratta dai barbagli del "boom" poco può dare di più».
Prima della guerra, quando ero studente, vi erano insegnanti che distribuivano cultura anche fuori dalle aule scolastiche. Il prof. Petronio, oggi ordinario di cattedra universitaria, ci insegnò a leggere Proust, Svevo, Melville. Il prof. Chiodi, massimo studioso di Heidegger in Italia, anch'egli oggi ordinario di cattedra universitaria, sapeva parlare ai giovani a scuola e nelle sale dei caffè e spalancava menti e coscienza.
Quanti di noi andammo partigiani perché sapevamo che c'era anche lui? E quanti gli devono la formazione intellettuale e civica? Ora gli altri dormono. Penso che leggano poco, perché, bene o male, chi legge, come dice Fichte, deve alla fine restituire, cioè produrre: qui non si produce nulla ed i giovani, per quel che ne so, preferiscono il pocherino, le fiacche conversazioni di paese, i film del sabato sera.
Sanno che scrivo, è già molto. Forse qualcuno compra i miei libri, ma non ho mai conosciuto un giovane che mi dicesse con franchezza: ho letto il tuo libro, non mi è piaciuto, discorriamone insieme. Li leggono perché mi conoscono, per una curiosità banale, per ragioni sottoculturali. In tanti anni che scrivo di Alba e su Alba e in Alba i soli contatti con i giovani sono stati: di una ragazza che mi ha sottoposto il suo diario intimo, un po' indecente, e di un ragazzo che voleva consigli su certe poesie. È poco? Ma Alba, ottusa da un lungo sonno, distratta dai barbagli del "boom" poco può dare di più».
So it goes #48
«Enrico Letta, a momenti compie
cinquant’anni», dico, «giovane non è». Sono con Zelda. Davanti al memoriale dei
partigiani, in piazza del Nettuno, si compie la celebrazione. I bersaglieri
strombettano l’inno d’Italia, ci sono le
corone d’alloro, le spillette col tricolore. «…Che Napolitano dica Affido il
mandato di formare il nuovo governo a Enrico Letta perché, benché sia giovane,
già ha maturato una buona esperienza politica… Ti sembra una frase appropriata?»
dico. «…Come se essere giovani e agli esordi fosse un difetto». Zelda non risponde. Guarda gli
studenti barbuti che si mischiano agli ex partigiani. «Quelli sono giovani»,
dice. Da quando ha rotto con Scott è ringiovanita; Rayban nuovi di zecca,
chioma ramata che le luccica al sole, è perfino abbronzata. «Io penso che il
paese semmai di una mente lucida e sgombra abbia bisogno», dico, «mica di un
artigiano che rimetta insieme dei cocci di politica». «Sto leggendo dei racconti
di Maupassant», dice lei, «in francese. Molto belli». Dice che le piacerebbe andare a
Venezia, a vedere la mostra di Manet, che vorrebbe trasferirsi a Ginevra, dato
che lì da un anno studia. Cioè, dei miei discorsi arrabbiati, se ne infischia. Ma essere
evasivi, Zelda, è facile da farsi, facile da dirsi, penso.
So so so.
mercoledì 24 aprile 2013
Io, sono la calamita umana, donna
stick. Un turista americano mi placca, appena entro in piazza. «Quella bandiera
lì, cos’è?» dice. Indica lo stendardo con sfondo azzurro, le stelle gialle disposte
a corona, dell’Europa unita. Si affloscia sopra l’ingresso del palazzo comunale.
«L’Unione europea», dico, «Francia, Germania, Spagna… presente?». Lui scuote la
testa. «Prenda fuori la moneta da un euro, da quel suo wallet Gucci fake», gli dico, io, calamita umana, donna stick. «Le
vede le stellette che ci sono sopra, in rilievo?». Sticky, sticky. «Le
stellette», dice, «già la bandiera americana le contiene...». Lo guardo. Cioè,
vuole dirmi, questo yankee di merda, che noi europei siamo dei fottuti imitatori,
a me, lo dice, la calamita umana dei turisti, donna stick. Non mi resta così
che prenderlo per il braccio. Sticky sticky calamitarlo sotto il memoriale dei
partigiani, la parete tappezzata dalle loro foto ritratto, black and white d'annata. «Le vede, quelle
faccette?» dico. «Pensi che la città di Bologna, i ragazzini là, l’han liberata
perfino quattro giorni prima che arrivassero gli americani… È chiaro?». «Oh, absolutely»,
dice lo yankee riponendo l'Euro nel wallet. «Absolutely cosa?» dico io, sempre più sticky sticky, calamita umana, donna stick.
martedì 9 aprile 2013
So it goes #47
«No no no», dico a Zelda, e mi
prendo la testa tra le mani. «Cos’hai?» fa lei. «Cos’ho? Ma lo senti Franceschini?
E Renzi? E Veltroni? E Fassina, lo vedi?». «Fassina», dice Zelda. Così mi tappo
le orecchie. «Non pronunciare quel nome», dico. «F-A-S-S-I-N-A», scandisce
Zelda apposta crudele. «No no no», dico, e mi prendo la testa tra le mani. Mi
metto in piedi davanti alla tivù spenta. Decido che faccio un appello alla
redazione del TG3: «Dico, con quel filmato di Bersani che su se stesso si gira,
occhi bassi guarda da una parte poi dall’altra, come a dire E adesso dove vado?
col sigaro che gli spenzola dalle labbra, la volete smettere? Eh? Basta così?».
«FASSINA», dice Zelda. No no no.
So it goes, dice Kurt.
giovedì 4 aprile 2013
Voglio scusarmi, e così lo sapete. Mi ha preso la passione di rovinare le fotografie altrui. Costeggio la fontana del Nettuno, per esempio, vedo uno straniero che sta per scattare una foto alla sua bella, in posa davanti al Gigante, e subito eccomi lì: devio la traiettoria del mio cammino, mi precipito nel suo campo visivo, proprio mentre scatta, e quella foto è per sempre perduta, lost. Peccato, e così lo sapete. Oppure, sono davanti alla statua di Luigi Galvani, lo scienziato che mostra la ranocchia spiattellata sul libro, quella che ha usato per i suoi esperimenti, suppongo, sono lì, magari per caso, e subito la riconosco, in arrivo dal bar Zanarini: è una ragazza bionda, nordeuropea, con dei bei denti bianchi che ridono. Alza le braccia, sceglie l’inquadratura: vuole fotografare lo scienziato, farlo vivere immortale nel suo Ipad. «Può spostare?» dice. «No», dico. Lei sorride. Non capisce. Peccato, e così lo sapete. La ragazza si sposta. Ma io mi sposto con lei, vado sotto al piedistallo, perfino. Lost, lost, lost. Non vi sopporto, voi fotografi di statue e monumenti celebrativi, che spingete moglie, fratello, bambino, a fianco del prezioso oggetto storico, vestiti in braghe corte, col cappellino da baseball, in canotta, la borsetta griffata a tracolla. Io non vi sopporto. Sciuperò la vostra foto. Voglio scusarmi, e così lo sapete.
mercoledì 3 aprile 2013
martedì 2 aprile 2013
Anche a calci
La sedia da spostare
a) Secondo me quella sedia lì va
spostata.
b) Anche secondo me quella sedia
lì va spostata.
a) Facile dirlo quando l’han
detto gli altri.
b) Se è per questo sono anni che
lo dico e nessuno mi ascolta.
a) Da un’approfondita analisi
storica e sociologica vien fuori che quella sedia pesa dai nove ai dieci chili.
b) Non sono d’accordo. Dai
sondaggi il 2% degli intervistati dice che pesa dai cinque ai sei chili, il 3%
dai sei ai sette chili, il 95% non lo so e non me ne frega niente. Basta che la
spostiate.
a) Secondo me per spostarla ci
vorrebbe qualcuno che la prendesse delicatamente per la spalliera e la mettesse
da un’altra parte.
b) Eccesso di garantismo. Al
punto in cui siamo è assolutamente necessario prenderla in qualsiasi modo.
Anche a calci.
a) A calci? Ma questo è
profondamente antidemocratico e anticostituzionale.
b) Se è così cambiamo la
costituzione.
a) Non è una cosa che si può fare
da un giorno all’altro. Nel frattempo propongo di indire un referendum.
b) Non si troveranno mai 500.000
firme per spostare una sedia.
a) E allora non c’è scelta:
elezioni anticipate.
b) No, le elezioni oggi no.
Sarebbe troppo grave per il paese. Forse domani.
a) Rimane il problema urgente
della sedia da spostare.
b) Su questo sono d’accordo. Può
essere un punto d’incontro.
a) Parliamone.
b) Parliamone.
[Giorgio Gaber, estratto dal libretto dello spettacolo teatrale 'E pensare che c'era il pensiero']
sabato 30 marzo 2013
Descrizione dell’opera dell’artista Mario Ceroli, esposta nella mostra ‘Faccia a faccia’, al Mambo di Bologna, fino ad aprile
«Il quadro dietro al divano, lo
detesto», disse Mario Ceroli intervistato, un giorno di quarant’anni fa, e
infatti. Le matite alte un metro circa che si stringono compatte in un
tridimensionale tappeto di punte legnose (Primavera,
1969) alle spalle del sofà, nel mio soggiorno, faccio fatica a pensarle.
Battaglia, 1978 |
Nemmeno ci vedrei l’oasi di
bandiere bianche che si afflosciano sui pali conficcati nel rettangolo di
sabbia del Progetto per la pace e non la
guerra (1969), no.
Ecco un artista che si gode lo
spazio, penso.
E appena entro, in lontananza, subito
la avvisto, al centro della sala maggiore. È la famosa
istallazione La Cina (1966), gli uomini-sagoma
in marcia disposti lungo file parallele, collegati da un tubo ferroso che li
trafigge nel petto, scandisce il loro passo. Formeranno pure l’esercito di Mao
Tse-Tung, il Grande Timoniere, ma a me, hanno sempre messo in testa gli omarini
del Calciobalilla… trasformati in un formato gigante, si capisce, da un Geppetto
artistoide che va pazzo per il bricollage, Hobby & Legno, quelle robe lì.
No, Mario Ceroli, secondo me, è
uno che si diverte un mondo. E quando gli artisti si divertono, anch’io mi
diverto.
Me lo immagino mentre con gusto
ritaglia (dato che dichiara di far tutto da solo, senza l’ausilio del falegname)
le sue figurine di legno (pino di Russia), le incastra e ricompone su
piani diversi. Da lì viene, penso, il titolo della mostra, ‘Faccia a faccia’,
ovvero: positivo/negativo, dritto/rovescio, buona/cattiva coscienza. Perché
quel che salta fuori, da tutto quell’incastrare, alla fine, e incredibilmente,
è una singola figura! Unica eppure sfaccettata, moltiplicata su se stessa. Come a
dire che ogni uomo è diverso dall’altro e anche da se stesso, ha le sue personali complicazioni che possono perfino essere contraddizioni, e del tutto inspiegabili. E niente si può fare per regolarizzare la cosa.
Viene in mente il pensiero
espresso da Michelangelo, quando diceva che scolpire significa sottrarre materia
alla materia, coi suoi contemporanei che, ci giurerei, lo prendevano per matto.
«Io voglio sovrapporre», dice Mario Ceroli invece. E le sue sagome infatti mai sono a
tutto tondo, mai. D’altra parte nessuno di noi lo è, penso. C’inventiamo i nostri comportamenti
imprevedibili, e per fortuna. Che noia sarebbe, sennò.
«Non chiamatemi artista del legno»,
dice. Fin dagli esordi, negli anni Sessanta, nel
contesto della cosiddetta Arta Povera, a Ceroli è sempre piaciuto usare anche legno di
recupero, tavole di compensato, materiale da imballo. «Dal legno bruciato traggo
una particolare soddisfazione», disse. Alberto Burri docet? E per forza,
rispondo io. Perché un pezzo di legno bruciato è come la faccia di un uomo che
soffre. Descrivere un pianto scrosciante è infinitamente più interessante che
descrivere una risata sguaiata, si sa.
Centouccelli, 1967 |
Mi guardo intorno.
Non c’è la Cassa Sistina (1966), no. Fece scalpore, Ceroli, confezionando o
meglio imballando un box in legno compensato, di quelli per trasporto, con
sopra scritto ‘fragile’ ecc., sul quale aveva ricavato un tetto a spiovente da
chiesa, e che riempì di attrezzi da lavoro. Peccato, peccato.
C’è invece una enorme gabbia che
contiene un’altra gabbia che a sua volta contiene una terza gabbia con dentro
la sagoma annerita di un uomo seduto (Centouccelli,
1967). Che è una bella metafora, per chi ama le metafore, chiaro. Io, non
sempre.
C’è un gruppo di cavalli-sagoma, altezza
naturale, con in sella cavalieri che sollevano bastoni con stendardi di stoffa
colorata (Battaglia, 1978). Paolo
Uccello? Oh yes, a lui si pensa:
Rinascimento, positività, progetto smarrito.
Mi fermo a guardarla. È
un’istallazione di una bellezza che lascia sgomenti, credetemi. «Voglio essere
sulle piazze», disse Mario Ceroli, «in grandi spazi». E questo esercito equino
bisogna immaginarselo proprio su una piazza, ma non solo; anche dentro il
cortile di un palazzo, in cima a un colle, dentro un giardino, perfino…
C’è poi Il raccoglitore di miele (1991): l’uomo-sagoma si arrampica su un
bastone di forma ellittica con a fianco uno pseudocesto che deve riempire del
prezioso alimento. L’agricoltore può diventare un autentico funambolo della
natura, già.
Dietro la rete, 2010 |
C’è l’impronta di un uomo, per terra, cosparsa di cenere, stampata su un piano di legno, arso, naturalmente (L’amore per la terra, 1991). E ci sono quattro campane con sopra le magiche parole ‘aria’, acqua’, ‘fuoco’, ‘terra’, rette in cima a dei bastoni, tirate in cielo da corde: L’accordo dei quattro elementi, 1976. Magari.
C’è l’impronta di un uomo, per terra, cosparsa di cenere, stampata su un piano di legno, arso, naturalmente (L’amore per la terra, 1991). E ci sono quattro campane con sopra le magiche parole ‘aria’, acqua’, ‘fuoco’, ‘terra’, rette in cima a dei bastoni, tirate in cielo da corde: L’accordo dei quattro elementi, 1976. Magari.
E poi si cammina più leggeri.
…Pensate che nei Planisferi (1990), nella geografia delle
terre, quelle emerse sono ricavate niente poco di meno che in foglia d’oro! Noi umani siamo dunque così
importanti? Boh.
C’è infine un’opera, che ci
riporta coi piedi per terra, dal titolo a dir poco eloquente, La strada della politica negli ultimi cento
anni, 1989 – i titoli di Ceroli sono sempre stratosferici -, sulla quale, da un grumo di colore, sulla tela, si staccano falce e martello e croce uncinata… e degli uomini microscopici, tutti in fila, si
muovono in cammino, quei simboli seguendo o inseguendo, a seconda di come la vogliamo vedere.
Così sorge spontanea la domanda: può
l’umanità sopravvivere alla scomparsa dei simboli?
Io, l’arte contemporanea, la
adoro per questo. Perché parte da un pezzo di legno e arriva alle nostre
budella.
venerdì 29 marzo 2013
So it goes #46
«…Non perderti per niente al
mondo», canto, «lo spettacolo vario… di uno innamorato di te». Da qualche
giorno, ce l’ho in testa, la canzone di Paolo Conte. Non che io, in questa fase
della mia vita, stia ascoltando il cantautore, intendiamoci, no. Strano, penso.
Chiamo Zelda e glielo dico. «Perché ce l’ho in testa?» le domando. «Guarda che
Scott», fa lei, «sono stata io a piantarlo, eh». Così, testualmente dice. «Che
cosa c’entra Scott con Paolo Conte scusa?». Riattacco. Mi guardo lo streaming
dell’altro giorno, l’incontro nella saletta di Montecitorio tra Bersani e i due
capogruppo del M5S. Il discorso di Bersani, non credevo, ma mi convince. «Mi
sembra di sentire una puntata di Ballarò», dice invece la capogruppo alla
Camera grillina. Così oggi richiamo Zelda. «Ma secondo te», dico, «tra la
canzone di Paolo Conte, il fatto che tu ti sia liberata di Scott, e il parlamento che il
M5S vuole governi senza capo, e sovrano,
secondo te, c’è un legame?».
So so so.
giovedì 28 marzo 2013
C'è da vomitare
Vorrei mangiare sotto una cupola.
Com'è immondo mangiare in un qualunque restaurant.
Mangiare e veder mangiare.
Una sala da pranzo cattedrale!
Ma è incomodo mangiare colla gente a pregare.
Mangiare e sentir borbottare.
C'è da vomitare.
Mangiare... senza tanto pensare.
Mangiare e non ci badare.
[Aldo Palazzeschi, Disappetenza, 15 dicembre 1914]
Com'è immondo mangiare in un qualunque restaurant.
Mangiare e veder mangiare.
Una sala da pranzo cattedrale!
Ma è incomodo mangiare colla gente a pregare.
Mangiare e sentir borbottare.
C'è da vomitare.
Mangiare... senza tanto pensare.
Mangiare e non ci badare.
[Aldo Palazzeschi, Disappetenza, 15 dicembre 1914]
Ah, si?...
Io sono tuo padre.
Ah, sì?...
Io sono tua madre.
Ah, sì?...
Questo è tuo fratello.
Ah. sì?...
Quella è tua sorella.
Ah. sì?...
[Aldo Palazzeschi, L'indifferente, 15 dicembre 1914]
Ah, sì?...
Io sono tua madre.
Ah, sì?...
Questo è tuo fratello.
Ah. sì?...
Quella è tua sorella.
Ah. sì?...
[Aldo Palazzeschi, L'indifferente, 15 dicembre 1914]
martedì 26 marzo 2013
So it goes #45
«Max», dico, «ma tu lo sai perché
ti amo?». «No», dice. «E saperlo, ti interesserebbe?». «No», dice. «Tu davvero non
desideri conoscere il perché di questo mio estremistico sentimento che si è
andato maturando nei confronti proprio della tua persona?». «Ma per un cazzo»,
dice Max.
venerdì 22 marzo 2013
Poco mi curo di come io abbia parlato
In realtà nella conversazione
quotidiana con gli amici e con i familiari non ho mai avuto preoccupazione di
parlar forbito; e mi stupisco che Cesare Augusto l’abbia avuta. Ma dove l’argomento
o la sede o la persona che m’ascoltava parevano richiedere diversamente, mi
sono provato un poco; con quanta efficacia, non so; l’hanno a giudicare coloro
di fronte ai quali parlai. Per mio conto, purché abbia vissuto rettamente, poco
mi curo di come io abbia parlato: gloria vana è cercare la fama unicamente nel
luccicare delle parole.
[Francesco Petrarca, op.cit., p.7]
giovedì 21 marzo 2013
So it goes #44
«Scott mi ha detto che s’è
innamorato di una», dice Zelda al telefono. «Ma va’?!». «Sì, è lì che non capisce
più niente, poveretto». Scott e Zelda convivono da vent’anni. «Che tu e Scott
interrompiate la vostra storia d’amore», dico, «lo troverei del tutto appropriato.
E positivo per te senz’altro». Perché Scott è un rammollito, e il classico
intellettuale egocentrico. «Questa donna ha trentacinque anni», dice Zelda, che
significa vent’anni meno di lei. «Non so, da quando ha compiuto i cinquanta»,
dice, «si è del tutto rincoglionito a inseguire la figa giovane… vuol dimostrare
la sua virilità, penso… fa certe battute da camionista, non ci crederesti». Ci
credo, invece. «Zelda», taglio corto, «considerati baciata in fronte dalla fortuna.
Chiamala provvidenza o come ti pare… Questa è una possibilità unica e
irripetibile che senza neanche tu l’abbia chiesta ti è stata regalata per…
Zelda?». Ha riattaccato. «Non sei molto delicata», dice Max. No, infatti. Nelle
questioni sentimentali, non sono delicata. Soprattutto le volte che di mezzo c’è
uno stronzo. Sono una drastica, io. La richiamo due giorni dopo. «Allora?».
«Mah», dice, «sembra che la donna, di questa cosa, non ne sapesse niente». «In
che senso?». «Era all’oscuro di tutto. Gli ha detto, a Scott, che lui aveva frainteso i suoi sentimenti». «Stai forse dicendo che Scott s’è sparato un suo individuale viaggio amoroso?». «Esattamente», fa Zelda. Strepitoso! Insuperabile!
«Vaga per casa», dice, «farfugliando frasi tipo ‘mi sono sbagliato… tu sei la
mia donna’… è fuori di testa… dice
che l’ha conosciuta a un bar di via Mengoli, pensa». «Be’, il bar fa parecchio
anni Cinquanta…». «Un po’», dice Zelda. «Zelda, senti», dico, «ma ti rendi
conto del colpo di culo?». «No». «Ti rendi conto che senza far un emerito cazzo
di niente, del tutto a tua insaputa quasi, ti stai finalmente liberando di quello?… Zelda? Zelda accidenti?». Ha
riattaccato.
So it goes, so so.
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