martedì 30 luglio 2013

Gallagher e il tortellino

«Il giornalista gastronomico che dovrai intrattenere sul tortellino è italiano», m’informò Clizia.
«Uhm».
«Un torinese».
«E perché non si arrangia da solo?».
«Mika, mi raccomando. Fammi fare bella figura. Chissà mai che non ci mandi qualche collega danaroso. Incantalo coi tuoi begli occhioni. Fallo sognare». Aggiunse che aspettava l'arrivo di un truccatore brasiliano, ospite nel suo bed and breakfast, in città per la rassegna 'Cosmoprof', la fiera dei cosmetici e profumi.
Il torinese alloggiava al Grand Hotel, l'ingresso che si affaccia sulla strada dello shopping compulsivo.
C'è un flusso di gente, che nei pomeriggi festivi percorre via dell'Indipendenza; in giù diretto alla stazione e indietro di nuovo puntando verso il centro. E poi da capo, un movimento incessante, fino al tramonto. Le vetrine assorbono il fiato di questi passeggiatori, le mani che ci si appoggiano sopra per riconoscere un'offerta speciale.
Una folla che forma un'etnia speciale; massicce catene stampate sul petto degli uomini e minigonne inguinali a fasciare il sedere delle donne. Dove abitino, gli shopper del weekend, dove vadano, quando lasciano la città, non si sa. Max dice che salgono su dai tombini, nelle notti di plenilunio e laggiù fanno ritorno. Li chiama 'i mostri del ciclo di Cthulhu'.
Il rettilineo delle vetrine si interrompe in corrispondenza del Grand Hotel.
Quando arrivai, quel pomeriggio, la passerella che accompagna la scalinata dell'ingresso era affollata da una calca disumana. Fotografi, telecamere, giornalisti, gruppi di adolescenti con indosso la maglietta degli Oasis. I componenti della rockband dormivano là.
Esibii il mio tesserino da guida. Con un inchino, i due uscieri in livrea mossero le pesanti porte vetrate dagli infissi oro.
Entrando nella hall, subito si è investiti da una vampata di aria coloniale. Il lampadario in vetro di Murano getta sull'ambiente una luce sfavillante. Uno scalone ondulato, attraversato dal tappeto di velluto rosso, come se ne vedono in certe scenografie hollywoodiane degli anni Quaranta, sale su ai piani alti. Ma di Rita Hayword, neanche l'ombra. Vomita a terra coppie di obesi turisti americani, in shorts e ciabatte da spiaggia.
Mi sedetti in una delle poltroncine decorate con le iniziali GH, addossate alla parete. Sulla consolle, c'è uno strano soprammobile. Una forma a metà tra vaso e cuore umano, sorretta da un piedistallo. Al centro del tavolo in stile Impero, troneggia un bouquet di orchidee finte al profumo di rosa.
La sala era deserta, tranne che per quattro energumeni, i bicipiti modellati sotto la maglietta siglata STAFF, che stazionavano di fianco all'ascensore e ai piedi dello scalone, di guardia.
Mentre aspettavo il giornalista, sfilai una delle dieci copie gratuite di un quotidiano nazionale e m'immersi nella lettura. Lessi dello sciopero generale proclamato dai sindacati come protesta contro lo sgravio fiscale che la nuova finanziaria riserva ai redditi alti. Finché l'ascensore si aprì e apparve il torinese.
«Scusi il ritardo», disse porgendomi la mano, grassoccia ed esangue. «Quando si viaggia, sono sempre infinite noie. L'inferno sono gli altri, direbbe Sartre».
Non si trattava del solito ragazzotto. Era un uomo sui cinquanta, doppiopetto, baffetti modellati in una sagoma stile Risorgimento. Mi disse subito che non intendeva schiodarsi dall'hotel.
«Detesto camminare, mi perdoni, la fatica fisica. Mi muovo solo per dedicarmi a interviste eccellenti: Paul Bocuse, Heinz Beck, Gualtiero Marchesi. Quando davvero ne vale la pena, mi capisce». Si guardò intorno con aria da padrone. «Ci possiamo senz'altro accomodare laggiù».
Indicava la scrivania laccata che affianca lo scalone.
«…La metto subito al corrente dei miei piani, signorina. Vede, sto scrivendo un libro sull'origine e storia sociale del tortellino, gloria gastronomica della vostra meravigliosa città. Un volume che andrà in stampa a fine anno, per un grande editore».
Fui presa da un attacco di panico. Cara Mika, mi dissi, prima o poi sarebbe successo, e in questo caso, prima del previsto. Che nonostante le assicurazioni di Clizia, l'esperto di gastronomia sarebbe arrivato. E lo avrebbe scoperto, che di suinicoltura intingoli e gourmet, non ne sai un'acca. Che sei una guida gastronomica sì: ma per soldi.
Mi sentii ad un bivio. Alla fine di una carriera mai voluta, costruita sulla menzogna. Fissai la parete davanti. Sopra è dipinta una scena boschereccia, una donna a cavallo e il suo cane. Pensai che la donna si fosse persa.
In quel momento, in cima alle scale, apparve un Gallagher: faccia smunta dietro enormi lenti azzurrine, chioma divisa in ciuffi rigidi sulla nuca. Lo seguivano due bionde dalle labbra sporgenti. Appena si venne a trovare lungo la direttrice dell'ingresso, da fuori si levarono le urla: «Liam! You are the best!».
«Il popolino», disse il giornalista scuotendo la testa. «Ha ciò che si merita, non trova?».
Il Gallagher si tolse gli occhiali da sole. Nel suo sguardo c'era una fredda indifferenza.
«Le rockstar dei giorni nostri», commentò il torinese, «hanno la sfortuna, o la fortuna, a seconda dei punti di vista, di essere sempre la copia di qualcuno. L'originale, purtroppo, è scomparso da tempo... D'altra parte», proseguì, «a chi interessa più l'originale? Mette spavento. E' qualcosa di incomprensibile. Agita le menti. Genera inquietudine… Ecco, io voglio da lei proprio ciò che quel signore laggiù rappresenta. Che lei si concentri, e mi dia lo stereotipo”.
Lo guardai incredula. Lo stereotipo?
«Sì, un resoconto dettagliato delle sciocchezze, corbellerie che circolano sul tortellino e nel mondo ne alimentano la fama. Ciò che la gente vuole sentirsi dire su questa specialità. Per trovarla unica, amarla, scovargli una sua sublime poeticità».
Fantastico, pensai, vuole da me un cumulo di balle.
«Mi sono spiegato?» domandò.
«Certo», dissi, «certamente».
Mi sentii a mio agio, di nuovo nel mio ruolo.
E neppure occorre inventare. L'aneddoto esiste già. La faccenda dell'ombelico, intendo. Una storiella goliardico-erotica, che tutti gli abitanti della città conoscono.
Parla di un giovane garzone di bottega che viene un giorno spedito dal fornaio suo padrone a prendere la farina che serve per impastare il pane.
Il giornalista cominciò a stenografare, euforico: «Benissimo! Vedo che io e lei ci intendiamo alla perfezione!».
«Questo ragazzo si mette in cammino», raccontai, «e raggiunta la casa del fornaio, va dritto nel magazzino, a caccia dei sacchi di farina».
«A piedi», disse il giornalista.
«Be', sì».
«E d'altra parte, in quale altro modo poteva spostarsi un povero figliolo di campagna? Mica c'erano gli Intercity».
«Quando si trova nel magazzino, il ragazzo cerca e non trova nulla»,  proseguii.
«Disorganizzazione».
«Come?».
«Vada pure avanti. Per la sua strada che io la seguo».
«Il giovane sale dunque al primo piano, dove è l'abitazione del fornaio».
In quel momento, girando lo sguardo verso l'uscita, vidi qualcosa precipitare ruzzolando nella hall dell'hotel, planare fin sotto la reception, istantaneo come un bolide. Era un corpo femminile. Una ragazza, piccola e rotonda, t-shirt con sopra scritto OASIS TOUR e sotto, nomi di città europee, date.
«Liam!» strillò agganciando i jeans del Gallagher. «Liam! I love you!».  Li fece scendere e scoprì una striscia di boxer.
Lui, che non era Liam, ma il Gallagher sbagliato, fece un giro su se stesso, pettinandosi. Con mossa istantanea, uno degli energumeni si avvicinò e la staccò. Il Gallagher si tolse la felpa e la lanciò nelle mani di lei.
«Next time I will give you my pants, babe», che la prossima volta, le avrebbe smollato le mutande.
Proseguii nel mio racconto.
«Il giovane garzone cammina in punta di piedi sul pavimento scricchiolante della casa del fornaio, incerto su quale stanza visitare, su dove possono essere custoditi i sacchi di farina».
«’Scricchiolante'», ripeté il giornalista. «Molto bene. Questa parola è un capolavoro di banalità».
Caro torinese, stavo per dirgli, io sono un'impenitente manipolatrice di banalità!
«Tutt'intorno regna un silenzio assoluto, non vola una mosca», raccontai invece. «La casa del fornaio sembra vuota. Finché arrivando in fondo al corridoio, vede una porta…».
Smise di scrivere. Appoggiò il taccuino sulla scrivania, si allentò la cravatta. Da fuori provenivano urla rabbiose. La felpa del Gallagher era stata lacerata. Mille mani cercavano di accaparrarsene un pezzo.
«Scena sublime! Impagabile! Un tempo ci si litigava le reliquie dei santi… Ogni epoca ha le sue santità promesse. I suoi mausolei. Ma mi scusi l'interruzione. Il suo racconto è molto interessante, sa».
«Il garzone si avvicina alla porta», dissi. «Questa è socchiusa. Lui la spinge appena, apre senza far rumore. E cosa vede?».
Il torinese impugnò la penna: «Oh, uno stuolo di fotografi, giornalisti, tecnici del suono…».
«E invece no: vede una donna».
«Ah, naturalmente! Toujours les femmes!».
«E chi era, se non sono indiscreto?».
«La moglie del fornaio».
«Ma certo. E chi altro poteva essere, in quel luogo a quell'ora…».
«Sta dormendo. E' distesa, abbandonata nel letto, i capelli sciolti sul cuscino. Si gira e si rigira tra le lenzuola».
«'Abbandonata nel letto': orrenda espressione!» disse lui stenografando veloce. «Très bien!».
«Sì, è un sonno, il suo, popolato di incubi… Si scopre», raccontai, «le lenzuola scivolano a terra e la camicia da notte si solleva. Il garzone la vede di spalle, poi si volta su un fianco, e il garzone adesso la può vedere frontalmente».
«Mm», disse il giornalista, «era una strega o che cosa?».
«Sulla pancia della donna c'è uno splendido ombelico».
«Apperò! Bene! Super!».
«Il garzone torna a casa. Ma quella notte non riesce a prendere sonno. Per colpa dell’ombelico, che l'ha turbato nel profondo».
«Autoerotismo», disse il giornalista.
«Non riesce a toglierselo dalla testa. Ci pensa e ripensa finché, nel cuore della notte, ecco che il garzone si alza».
«La masturbazione non sempre è soddisfacente».
«Si sente ispirato. Rapito. Inebriato».
«'Inebriato'», ripeté il giornalista scrivendo.
«E inventa questo genere di pasta che nella forma rievoca appunto quella di un ombelico», conclusi.
«E poi?».
«Basta. La storia finisce così».
Ci stringemmo la mano.
«Ha fatto un eccellente lavoro», si complimentò il torinese. «Ma davvero la pagano per raccontare queste stronzate?».
In quel momento, l'ascensore vomitò fuori Liam, il Gallagher giusto. Camicia safari, frangia interrotta dai Rayban.
[dalla Guida gastronomica]

venerdì 19 luglio 2013

Mr Pig

Il TdM, o Tempio della Mortadella, è il luogo nel quale si celebra l'apologia dell'insaccato e della gastronomia che, nel mondo, ha reso famosa la città. Un negozio in continua espansione. Prende nuovi spazi, aggiunge stanze, sempre di più sedimentandosi nel grande palazzo che da sempre lo ospita. Sul fronte dell'edificio si stacca un bovino rampante, lo stemma della corporazione dei macellai. Esplorandolo ci si può immaginare come la carne e i suoi molteplici derivati possano davvero reggere l'equilibrio del mondo.
Di fianco all'ingresso, si siede un frate. Raccoglie offerte e rilascia in cambio un santino. Saluta i turisti chiedendo da quale parte del mondo provengano.
Il re del TdM, o demiurgo dell'insaccato, è Mr Pig: faccia rosa lucido, sulla quale la pelle appare tesa e levigata. La forma del corpo, a imbuto, richiama un mortadellone in taglia XL. Tutti assomigliamo un po' a ciò che amiamo.
La settimana precedente, mi aveva annunciato che stava allestendo una nuova stanza.
«La inauguriamo tra qualche mese. Mettiamo la tavola per tirare la sfoglia. I giornalisti potranno in prima persona lavorare col mattarello e mangiarsi alla fine quello che hanno prodotto. Tu cosa mi consigli?».
«L'importante è che sia gratis».
«Ah, quando c'è da leccarsi le dita, tutto il mondo è paese», aveva convenuto Mr Pig.
Entrammo.
Dopo pochi minuti, il gallese passeggiava beato tra le scansie, come in vacanza premio.
Appena mi vide in compagnia, Mr Pig si defilò. Parlare coi giornalisti non gli piace. L'unico modo per obbligarlo alla conversazione è fargli l'improvvisata; coglierlo mentre sta annusando un culatello appena aperto, depositandolo sull'affettatrice.
«Mr Pig!» lo chiamai. «Questo signore è venuto apposta dalle nebbie del Galles a quelle padane per imparare tutto sui maiali! Che ci racconta qualcosa?».
Lui mi guardò con occhio truce. Poi, annusando l’aria, sorrise.
Perché Mr Pig è sensibile ai complimenti. E vuole che del TdM se ne parli bene e in tutto il mondo; crede alla magia della pubblicità.
«Possiamo fare un'intervista?» domandò il giornalista. 
«Come no!» ripose il demiurgo dell'insaccato, «I English», parlo inglese. «Great!». E non feci in tempo a dirmi disponibile alla traduzione, che  strofinandosi le mani nel grembiule, attaccò: «My uncle open the shop second world war need money no pigs poor people sell mortadella, understand?».
Il giornalista rimase con la biro in mano, interdetto.
«…Sixty per cent fatty meat forty per cent lean meat pigs no believe donkey», proseguì Mr Pig, «understand?».
«E' sempre un piacere ascoltarla, Mr Pig», dissi. «Lei è una delle personalità che più rappresentano la cultura della nostra città. Un portavoce esemplare».
«Vaglielo a spiegare te, agli stranieri, che è tutta una questione di odori», mi sussurrò mentre traducevo al gallese. «Chi ce l'ha il coraggio di dire a questi disgraziati che la mortadella non esiste?».
Il giornalista cominciò a toccarsi lo stomaco. A quel punto Mr Pig disse che si scusava, un impegno reclamava la sua presenza altrove. In questi casi, quando il capo se la fila, è prudente rinunciare allo spuntino a sbafo. Quella volta, però, cogliendo la disperazione nel gorgoglio dello stomaco del gallese, e volendo premiarlo per avermi seguito al museo archeologico, decisi di sfidare la sorte.
Mr Pig stava per rintanarsi, quando azzardai: «Che al nostro amico, gli fa assaggiare un tocchetto della sua specialità?».
Lui si voltò, lo sguardo di chi ti augura di morire di fame.
Vidi il piattino che, con gesto funereo, sollevava dal bancone e porgeva al giornalista. I cubetti di mortadella erano color grigio antracite, come ci avessero siringato dentro fiotti di cemento.
«Prego», disse con un sorrisetto vendicativo. E capii che non potevo fare proprio niente per salvare questo ragazzone così elegante, nelle sue scarpe made in Italy.
Morsicò il cubetto, masticò piano. Inghiottì.
«Purtroppo non è proprio freschissima», ammise Mr Pig.
Alle sue spalle, la cassiera sbarrò gli occhi, mimando con le dita il numero quindici. I cubetti assassini riposavano nel piattino da quindici giorni.
Mentre uscivamo, e il gallese si precipitava a vomitare il boccone nel cestino della spazzatura che il frate gli indicava, sbirciai il demiurgo dell’insaccato per un'ultima volta. Non era un uomo, ma una maschera beffarda.
«Eh sì, cari miei», ripeteva appoggiando delicatamente una forma sull'affettatrice, «la mortadella non esiste proprio!». Nei suoi occhi lampeggiava un guizzo di piacere.
[dalla Guida gastronomica]

giovedì 18 luglio 2013

Il Komitato

Il 24 giugno 1971, così è riportato sullo statuto che abbiamo scritto e firmato, decidemmo la fondazione del Komitato. Oltre alla Rossana e a me, ne sono membri e fondatori Sandro, la Sonia e sua sorella Mariangela che chiamiamo Mari.
Sandro, l'anno prossimo andrà in quinta elementare, come la Sonia. È più grande della Mari che invece frequenta la terza. Arriva sempre alla fornace a bordo della sua bici, che è una Graziella verde militare che apparteneva a sua nonna, col sellino tagliato dal quale esce l'imbottitura, e il manubrio che espelle pezzi di ruggine.
Dice che la Graziella, non la cambierebbe con nessuna bici da cross al mondo, perché anche se è da femmina, è la più veloce di tutte, e quando frena, inchioda sull'asfalto. Nel cestino, trasporta sempre delle scatole di polistirolo che gli procura suo padre nella fabbrica di pesce surgelato dove lavora al magazzino.
«Col polistirolo», dice, «si può fabbricare tutto quel che si vuole».
Ogni giorno arriva con delle scatole nuove e di grandezze differenti. Prima di poterle usare, però, deve lasciarle sul balcone del soggiorno di casa sua almeno per una notte, perché quando suo padre gliele porta, puzzano di sardine che fanno vomitare.
Sandro si siede al tavolo del capannone, e con un coltellino divide i pezzi di polistirolo creando delle sagome a incastro. In pochi minuti costruisce un oggetto.
«Cos'è?» gli chiede la Rossana.
«Un container subacqueo. Per trasportare lo squalo balena pescato in Groenlandia, dentro un sottomarino fino all'Italia».
Il suo eroe è Mao Tse-Tung, che sarebbe il presidente della Cina.
Un giorno, al manubrio della Graziella, appese una canottiera con sopra scritto Rivoluzione culturale. Per qualche tempo, la bandiera sventolò all'ingresso del capannone. Finché un pomeriggio la trovammo per terra, sul prato. Era strappata e sulla parete qualcuno aveva scritto Boia chi molla. La Mari cancellò con la tempera di colore bianco. Ci dipinse sopra cinque margherite, dai petali ciascuno di un colore diverso e dietro il fiore, un arcobaleno rovesciato.
«Perché l'hai disegnato al contrario?» le chiese Sandro.
«Così pensano che siamo dei sovversivi e non tornano mai più». E infatti mai più tornarono.
Sandro vuole diventare ingegnere navale; lavorare nel cantiere del Canale di Suez, sul Mar Rosso, dove approdano le navi petroliere degli sceicchi arabi, che trivellano gli oceani e ripartono per i mari del Sud cariche di barili.
«Io invece all'Università studierò le leggi dell'Italia», dice la Sonia. «Voglio partecipare ai processi in tribunale e far mettere in prigione il colpevole».
La Sonia è bionda e calcolatrice. Ha sempre una risposta pronta e uno sguardo gelido che mette in soggezione. Il padre suo e della Mari lavora nell'ufficio della Compagnia dei Telefoni. Ha gli stessi occhi celesti della Sonia, che quando piove diventano grigioverdi come l'acqua delle pozzanghere.
Le piace dare gli ordini. Alcuni giorni dopo che ci eravamo installati nella fornace, e che le regole del Komitato ancora non erano stabilite, lanciò la sua proposta.
«Ogni membro fa il capo a turno», disse. «Questo mese di giugno comanda Sandro, nel mese di luglio, comanderò io».
Parlò in modo così risoluto che nessuno subito ebbe il coraggio di esprimere la sua opinione, né dissentire. Finché la Mari ruppe il silenzio.
«Io non sono d'accordo», disse.
«Perché? Sentiamo», fece la Sonia ostile.
«La disciplina è un comportamento dell'anima. Non si può comandare».
«E invece l'ordine deve essere imposto da fuori».
La Mari scosse la testa. 
 
 
Lei è l'opposto di sua sorella. Castana e con le lentiggini sul naso. La pancia, i polpacci, le dita delle mani perfino, tutto nella sua persona è un po' grassottello. Non assomiglia a nessuno nella sua famiglia. «Secondo me», la prende in giro la Sonia, «all'ospedale ti hanno scambiata nella culla». «Ti credi di essere simpatica?» replica la Mari che è pacifica e non si offende mai.
In educazione artistica è la più brava della classe. Di mestiere vuole fare l'arredatrice. «Deciderò i mobili», dice, «per delle case con delle pareti trasparenti di vetro e legno, circondate da alberi frondosi, costruite in mezzo a un parco senza recinto».
«Ciascuno è responsabile del suo comportamento», disse quel giorno. «Se ognuno ha nel cuore una regola, spiegò, questa diventa la linea che aiuta a distinguere il buono dal cattivo. E quando si è capaci di decidere della propria vita», disse, «il bene che è per sé, lo è anche per gli altri».
«E quale sarebbe la regola?» chiese la Sonia diffidente.
«La coscienza», disse la Mari.
Da quando le ho sentito pronunciare queste parole, penso che sia lei il membro più saggio del Komitato.
[da Le descrizioni]

mercoledì 17 luglio 2013

Vi hanno impedito di sapere chi siete

Lo spirito, la dignità mondana,
l'intelligente arrivismo, l'eleganza,
l'abito all'inglese e la battuta francese,
il giudizio tanto più duro quanto più liberale,
la sostituzione della ragione alla pietà,
la vita come scommessa da perdere da signori,
vi hanno impedito di sapere chi siete:
coscienze serve della norma e del capitale.
[Pier Paolo Pasolini, Ad alcuni radicali da 'La religione del mio tempo', op.cit., pag.115]

martedì 16 luglio 2013

Da Lice Puda

- Tu vieni, Gigino, stasera da Lice Puda?
- Sì.
- Tu vieni, Jean, stasera da Lice Puda?
- Sì.
- Tu vieni, Enzo, stasera da Lice Puda?
- Sì.
- Tu vieni, Carmine, stasera da Lice Puda?
- No.
[Aldo Palazzeschi, Gigino Siccoli, Jean Polverini Badel, Enzo Tolu, Carmine Lazzarini, 15 febbraio 1915]

 

lunedì 15 luglio 2013

La rabbia è propria delle bestie

Su un tanto nemico sperare di conseguire una vittoria senza sangue è piuttosto vana pazzia che generosa fiducia […]. Far guerra a tali uomini cedendo a un breve impeto d’ira e abbatterli, anche se lo possiate impunemente, non vedo che diletto possa avere per voi; lo vedranno forse meglio di me gli animi accesi di coloro che a mo’ di femmine godono dei dolori degli amici e della vendetta di ogni offesa. Ma è cosa né inutile né onesta, e neppure umana: assai meglio è dimenticare l’ingiuria che vendicarla, meglio placare il nemico che annientarlo […]; che se anche a raggiungere l’uno e l’altro scopo ugual fatica occorresse, tuttavia la mitezza è propria degli uomini, la rabbia delle bestie, e non di tutte ma delle più ignobili e d’indole più feroce.
[Francesco Petrarca, Le familiari – Ad Andrea Dandolo, doge di Venezia, esortandolo a far pace coi Genovesi – op. cit., pag. 947]
 

mercoledì 10 luglio 2013

Non sei padrone dello stato, ma servo

«Tu dunque, finché è tempo, medita a lungo», come dice quel giovane di Terenzio; considera, te ne prego, ciò che fai, studia te stesso, esamina (e non ti sbagliare) chi sei, chi fosti, donde vieni e dove vai, fin dove puoi spingerti innanzi senza offendere la libertà, qual veste tu porti, quali impegni hai preso, quali speranze hai dato di te, che cosa hai promesso: e vedrai che non sei padrone dello stato, ma servo.
[Francesco Petrarca, Le familiari – A Nicola – Cola di Rienzo – tribuno di Roma, sdegno misto a preghiera per il suo mutato contegno – op. cit., pag. 895]

venerdì 5 luglio 2013

Per molti la cultura è uno strumento di pazzia, per quasi tutti di superbia

Per molti la cultura è uno strumento di pazzia, per quasi tutti di superbia […]. Quel tale sa una quantità di cose sugli animali feroci, sugli uccelli, sui pesci: quanti peli ha il leone sulla testa, quanto piume l’avvoltoio nella coda, con quante spire il polipo abbraccia il naufrago; come gli elefanti si accoppino volgendosi le terga e come la loro gravidanza duri due anni […]; come la fenice si bruci sopra una pira di legni aromatici e, bruciata, rinasca; come il riccio possa frenare una nave spinta a qualsivoglia velocità, mentre fuori dell’acqua non ha forza alcuna; […] che le talpe sono cieche e le api sorde, che – finalmente – di tutti gli esseri animati soltanto il coccodrillo è capace di muovere la mandibola superiore. Tutte cose false in grandissima parte […]. Ma anche se fossero vere non servirebbero affatto a vivere felici. Di grazia, come può giovare conoscere belve, uccelli, pesci, serpenti, e ignorare ovvero non curarsi dell’uomo […]?
[Francesco Petrarca, op.cit., Prose polemiche, pgg.713-715]