domenica 30 dicembre 2012
So it goes #37
«Nichi Vendola», dico a Max, «mi
fa venire in mente Trotckij. Nel ’17, quando abitava a New York». Ci penso, a
questo, perché lo vedo concentrato su delle poesie di Brotskij. «I camerieri
della trattoria dove andava a mangiare, lo odiavano, Trotckij. Perché non
lasciava la mancia. ‘Mai vorrei ledere la dignità di un lavoratore’, spiegava a
chi gli chiedeva ragione del comportamento insolente… Oppure, mi fa venire in
mente, Nichi Vendola, che pure stimo, come uomo, e politico perfino», dico,
«Pasolini, per certi versi, quando per strada intervistava i sottoproletari
meridioni, gli domandava se preferivano campagna o città, e loro rispondevano
‘la città! il progresso senz’altro!’ e lui ci rimaneva male, incassava questa
delusione, poveretto, ma era sincero». Max mi dice che Brotskij, sbarcato in
America, subito rimase folgorato dal jukebox, distributore di perle di
saggezza a buon mercato, diceva, yankee. Così. Così.
So, so.
sabato 29 dicembre 2012
venerdì 28 dicembre 2012
So it goes #36
«Con la febbre, come va?» dice
Zelda al telefono. «Ancora qualche linea», dico. «Cos’hai preso?». «Pastiglie
di Spongata». Oggi ho dormito quindici ore. «Quindici ore, ho dormito, oggi»,
dico. «Avrai una pelle meravigliosa», dice Zelda. «Pura come Camay, direbbe DeLillo».
«Come cosa?». «Niente». Non raccoglie la battuta. Così le racconto
dell’esplosione dei fichi al caramello. «Durante il viaggio in direzione del
pranzo natalizio», dico, «il vasetto che ho messo nella busta con gli altri
regali… non ci crederai, ma all’improvviso
si è disintegrato». «Fantastico», dice Zelda. «…Come se ci fosse qualcosa, che
dall’interno, provocando pressione, lo ha fatto saltar per aria… il caramello
si è infiltrato tra i tasti del libro-pianoforte, appiccicato al corpo del peluche
Winnie Pooh...». Zelda ride a crepapelle, fa il nome di Marcel Mauss.
So it goes, so it goes.
lunedì 24 dicembre 2012
So it goes #35
«Da quando sono tutti morti»,
dico a Zelda, «una pera dietro l’altra mi farei per sopravvivere a questi
giorni». «Rimpiangi dunque l’orrenda scena familiare?». «Non ci crederai,
eppure parlano, quei parenti, della piscina da allargare, del rendimento dei
titoli di stato… del Capodanno a Cortina, parlano, del nuovo borsellino di
Bulgari… Ma mia madre, mio padre, mai avrebbero permesso che si nominasse una
piscina, durante il pranzo di Natale, mai». Così mi fa vedere, Zelda, per
distrarmi dagli sciagurati pensieri, un’incisione di artista fiammingo, che è una
natività nella quale vicino a Maria, è rappresentata la figura della levatrice.
E in effetti è bellissima, questa presenza inconsueta, intendo, che nella faccia
mi sembra assomigli alla mia panettiera, perfino. «Da quando sono tutti morti»,
dico a Zelda entrando in cucina, «la vigilia di Natale, penso alla mia
panettiera, eh». «Datti da fare con quel branzino piuttosto», fa lei. Va bene, Zelda, lo
sai che io sono la Grande Maestra Cuciniera dei branzini selvaggi. «Apro il
Franciacorta?» dice Max. «Eh apriamolo», dico, da quando sono tutti morti.
So.
sabato 22 dicembre 2012
Descrizione della mostra ‘George Grosz: gli anni di Berlino’ – disegni tra il 1912-1931 – allestita alla galleria De’ Foscherari Bologna – fino a febbraio 2013
Ci sono donne svestite dal corpo
abnorme, le grosse mammelle spenzolanti, che agli uomini provocatoriamente mostrano
lo sterminato sedere, e slanciando la linguaccia di fuori fanno marameo.
Cleopatra è una di loro, la Regina delle Puttane (Cleopatra, 1920).
Ci sono donne vestite in
accessoriati completi borghesi, stola di pelliccia al collo, piccole borsette
in pelli di bestie rare: al parco spingono la carrozzina con dentro il diletto neonato
(Il rampollo, 1930), scavallano le
gambe nei caffè, si ritoccano le labbra, ante litteram effetto silicone (suine,
in realtà), dilatano le narici, anch’esse scrofesche.
Ci sono gli
uomini-che-odiano-le-donne (specie quelle che gli fanno la linguaccia, si
capisce), pelati in perfetto stile Mussolini, uniforme militare con mostrine appuntate
alle spalle (Agamennone, 1919):
uomini che le donne, le anelano, ma quando ce le hanno davanti, strafottenti,
piene di spirito, volentieri le farebbero fuori.
C’è l’arroganza del macho e la
sua irrisione tutta al femminile (avete notato che i soggetti maschili di Grosz
hanno sempre un sesso minuscolo?).
C’è una Notte di nozze (1923) tra sposini uomini, con uno dei due agghindato
in pizzo e giarrettiera che all’altro sembra dire: «Caro?»… Spassoso!
Esilarante!
C’è un pittore davanti al
cavalletto, che ha poco da misurare la tela con squadra e goniometro… tanto lì dentro, il donnone che gli fa da
modello, nemmeno compresso su scala ultraridotta ci entrerà mai. Non a caso il
titolo del disegno è Nuova Oggettività
(1925): più oggettivo di così, in effetti.
C’è - nel senso che questi
disegni ce lo ricordano in ogni istante – quella frase, ‘L’uomo non è buono ma
è una bestia’, che Grosz s’inventò come titolo per una mostra ad Hannover,
proprio in quegli anni; come c’è il sentore delle multe che pagò per ‘diffusione
di oscenità’, per non dire delle oltre 200 opere che i nazisti gli distrussero
nell’operazione di Arte Degenerata.
C’è la parola ‘Gewalt’, che
sappiamo, in tedesco, ha il duplice significato di ‘autorità’ e allo stesso
tempo di ‘violenza’.
C’è la regola sociale che comprime
la coscienza facendo assomigliare gli esseri umani a ridicoli mammiferi in frac
e che prima o poi, comprimi e comprimi ancora, finisce per liberare gli istinti
più atroci (Arbeit macht frei,
appunto).
No, altroché oscenità.
venerdì 21 dicembre 2012
giovedì 20 dicembre 2012
Discendi
Discendi sempre dalle nude alture dell'intelligenza alle verdeggianti valli della stupidità.
[Ludwig Wittgenstein, op.cit., pag. 143]
mercoledì 19 dicembre 2012
So it goes #34
«Definire la nazione come una repubblica fondata sul
lavoro», dico a X che d’ora in poi chiamerò Max, «è un colpo di genio, in
effetti». Mi viene in mente perché ho letto l’intervista a un fabbricante di
ombrelli, un artigiano napoletano: ‘l’intelaiatura’, dice al giornalista, ‘la
faccio con le stecche di balena… per produrre un ombrello come si deve’, dice,
‘è necessario passare attraverso 70 fasi di lavorazione’. «…Collegare la ricchezza
di uno stato all’ingegno dei suoi cittadini, intendo», dico a Max, «dire ‘il
patrimonio di tutti scaturisce dall’intelligenza dei singoli». Max, che è piuttosto di
tendenza anarcoide, scuote la testa. «Gerard Depardieu, per esempio», dice,
«io, quando dice che per non pagare la tassa patrimoniale, vuol lasciare la Francia,
mica me la sento di dirgli niente». ‘È da quando ho quattordici anni che
lavoro’, dice Gerard Depardieu, ‘è la Francia a dover qualcosa a me’. «Io penso
che l’ombrellaio anche a dieci anni ha cominciato», dico. «A quattordici anni»,
dice Max, «io giuravo a tutti che avrei fatto l’allevatore di piccioni viaggiatori».
So so so.
martedì 18 dicembre 2012
Aneddoto quarto
Sono in coda alla cassa Coop, quando un
gruppo di studenti, dall’esterno, direttamente arriva alla cassa. Girata
in testa una ragazza porta la corona d’alloro del neolaureato: trucco vistoso,
miniabito in lustrini rossi, calza su guêpière,
tacco a spillo. Sulla schiena nuda le vedo appiccicato un cartello con la
scritta ‘dottore nel buco del cul’. I compagni, dietro di lei, sono allegri.
Bevono dal cartoccio del Tavernello, urlano: «Vaffancul vaffancul!», si spingono
tra di loro, fanno cadere i cesti impilati del supermercato, ridono fino alle
lacrime. Sono entusiasti, ma cosa vogliano dalla cassa Coop non è chiaro. Finché la
ragazza con l’alloro si avvicina alla cassiera e dice: «Fammelo provare!».
Indica il piccolo microfono collegato al banco, che la cassiera usa per richiamare
i colleghi presenti in sala, controllare un prezzo. «Come, scusa?» fa. «E
dai! Fammi cantare un pezzo!» dice la ragazza. Si è seduta nello scivolo della
cassa, dove rotola la merce. «E dai!» dicono i compagni, «si è appena laureata! Falla sfogare!».
In silenzio la cassiera batte sui tasti numerici. È una ragazza indiana o
pakistana o bengalese, chissà. È sempre serissima. La neolaureata si sfila le
scarpe, le getta per terra. «Uff!», dice, «che mortorio, ragazzi!». Le calze le
sono scese alla caviglia, si sono lacerate. «In che materia ti sei laureata?»
le dico. «Giurisprudenza». «Cosa vorresti fare nella vita?». «Boh», dice. «Vediamo.
La cantante».
domenica 16 dicembre 2012
Passa-a-Vodafone
Trascorsero alcune settimane. Nevicò. Con la neve, i
turisti disertano la città. Hanno paura di raffreddarsi, scivolare sul
marciapiede. Preferiscono la montagna. Vogliono prendere la seggiovia.
Di Clizia non avevo notizie. Sapevo che doveva
operarsi a un ginocchio. Era caduta sul sagrato della basilica, mi aveva detto
una delle Sgambate Guide Combattenti, mentre accompagnava un gruppo di
ufficiali della marina. Era un martire del lavoro.
Mentre passavo sotto le due torri, un sabato, mi si
avvicinò un nero con la cassetta a tracolla piena di oggetti.
«Scusa», disse,«scusa…Calendario, prendi calendario...
Con
Tom Cruise. George Clooney, Brad Pitt, Keanu Reeves, Russell Crow, Matt Damon… Scusa, disse, scusa… Accendino, prendi accendino. Un
euro, dammi un euro… Ehi bellissima, un euro. Scusa, un euro per un panino».
Gli misi una moneta sul palmo della mano. Lui la
strinse in un pugno.
«La devi smettere, di scusarti».
Si allontanò calcandosi in testa il berretto di lana a
strisce.
Pensai alla sua infanzia; trascorsa nell'Africa nera.
Lo vidi bambino mentre usciva dal villaggio di capanne per correre nudo,
gareggiare con le zebre nella savana piatta. Poi col cappello di lana e la
sciarpa al collo dentro un casermone alla periferia della città. Lo pensai
seduto davanti a una stufetta elettrica, mentre mangiava carne in scatola.
Mi mossi in direzione della piazza. Era mattino
presto. Ero uscita con l’idea di camminare.
Sotto il voltone del Podestà, sedeva in cerchio un
gruppo di pakistani. I cappotti dai colori spenti nascondevano tuniche
colorate. Più avanti, coppie di anziani, col cappello e la cravatta. Si
scrutavano, si tenevano a distanza, i due nuclei, ma si capiva che si
conoscevano. Osservavano due ragazzi che, negli angoli opposti del voltone,
parlavano rivolti alla parete.
«Life-is-now», diceva
uno.
«Passa-a-vodafone», replicava l'altro.
Provavano il fenomeno di risonanza acustica.
Imboccai via D'Azeglio. In cielo ronzava l'elicottero.
A un certo punto, se ne aggiunse un altro. Facevano delle acrobazie.
Tornai a casa. Guardai il cielo dal
terrazzo. Era buio e nebbioso.
[dalla Guida gastronomica]
sabato 15 dicembre 2012
So it goes #33
«Ma
secondo te», dico a Z, che d’ora in poi chiamerò Zelda, «che da una settimana
desideri solo nutrirmi di polenta alla valdostana liofilizzata, io che la
polenta, in vita mia, sempre l’ho odiata… per te, cosa significa?». «Che hai
freddo», dice Zelda, che aggiunge: «Con la salsiccia affumicata?». «No», dico,
«lo troverei trash, ecco». «E secondo te», dico, «che entrando invece in una
qualunque osteria, col desiderio di mangiare una domestica tagliatella, io
sempre sul menù trovi la voce ‘tagliatelle alle ortiche’, per te, cosa significa?».
«Non ci sono più rivoluzioni», dice Zelda, «ma solo saccheggi nei
supermercati». «Eh?». «Una frase di Sebastian Matta, il pittore». «...Un piatto di
sua natura dolce come la tagliatella associato all’erbaccia urticante, intendo…»,
dico. Zelda ride. «Così è la vita», dice.
So
it goes, dice Kurt.
venerdì 14 dicembre 2012
Prospettiva dall’alto
Gli
uomini, bisogna vederli dall’alto. Spegnevo la luce e mi mettevo alla finestra:
essi neppure sospettavano che si potesse vederli da sopra. Curano la facciata,
qualche volta la parte posteriore, ma tutti i loro difetti sono calcolati per
spettatori d’un metro e settanta. Chi ha mai riflettuto sulla forma di un
cappello duro visto da un sesto piano? Gli uomini dimenticano di difendere
spalle e crani con colori e stoffe vistose, non sanno combattere questo grande
nemico dell’umanità: la prospettiva dall’alto. Mi sporgevo e mi mettevo a
ridere: dov’era andato a finire quel famoso «portamento eretto» di cui andavano
così orgogliosi: erano spiaccicati sul marciapiede e due lunghe gambe mezzo
rampanti uscivano da sotto le loro spalle.
Sul
balcone d’un sesto piano: è qui che avrei dovuto passare tutta la vita.
[Jean-Paul
Sartre, Il muro, Torino, Einaudi, 1964, pag.67, trad. di E.G.]
giovedì 13 dicembre 2012
Hai bevuto troppo
Mi
sveglio nel cuore della notte con le tempie che mi pulsano. Sudo.
Hai bevuto troppo, hai bevuto…
Mi scopro dal piumone. Dalla strada viene il fruscio meccanico della spazzola che pulisce l'asfalto di notte. Mi siedo sul bordo del letto, la testa pesante.
Vado in cucina. La gatta parlante mi fissa davanti la sua ciotola.
«Sarà rivoluzionario colui che riuscirà a rivoluzionare se stesso», dice la stronzetta.
«Me l’hai già detto».
Dev’essere Simone Weil, in effetti.
Mi rimetto a letto. E quando chiudo gli occhi, mi vengono in mente delle fotografie.
Centinaia, migliaia, di fotografie. Poi la casa di una mia cugina, nella quale sono entrata. È stato dopo il funerale di mia madre. Questa cugina, che a malapena conoscevo, dopo la cerimonia funebre, mi vide persa e addolorata, chissà, mi chiese se avevo piacere di mangiare da lei. Così varcai la soglia di quella casa intasata di foto. Erano dappertutto. Nei corridoi, sui mobili, a parete, perfino sopra il gabinetto, in bagno. Tutte di membri della famiglia. Facce sorridenti, sottovetro. Facce parlanti che dicevano fiduciose: «Non sei sola al mondo! Siamo tutti con te! Siamo la tua famiglia!».
Qualcosa che mi tenga conficcata al mondo, di questo hai bisogno. Di un autoinganno. Hai bevuto troppo, penso, hai bevuto…
Mi scopro dal piumone. Dalla strada viene il fruscio meccanico della spazzola che pulisce l'asfalto di notte. Mi siedo sul bordo del letto, la testa pesante.
Vado in cucina. La gatta parlante mi fissa davanti la sua ciotola.
«Sarà rivoluzionario colui che riuscirà a rivoluzionare se stesso», dice la stronzetta.
«Me l’hai già detto».
Dev’essere Simone Weil, in effetti.
Mi rimetto a letto. E quando chiudo gli occhi, mi vengono in mente delle fotografie.
Centinaia, migliaia, di fotografie. Poi la casa di una mia cugina, nella quale sono entrata. È stato dopo il funerale di mia madre. Questa cugina, che a malapena conoscevo, dopo la cerimonia funebre, mi vide persa e addolorata, chissà, mi chiese se avevo piacere di mangiare da lei. Così varcai la soglia di quella casa intasata di foto. Erano dappertutto. Nei corridoi, sui mobili, a parete, perfino sopra il gabinetto, in bagno. Tutte di membri della famiglia. Facce sorridenti, sottovetro. Facce parlanti che dicevano fiduciose: «Non sei sola al mondo! Siamo tutti con te! Siamo la tua famiglia!».
Qualcosa che mi tenga conficcata al mondo, di questo hai bisogno. Di un autoinganno. Hai bevuto troppo, penso, hai bevuto…
mercoledì 12 dicembre 2012
Pezzi di luna per Santa Lucia
«Posso uscire con Gigi?» chiesi.
Le luci correvano veloci e si
arrampicavano su per il Monte, quel giorno. Nel carruggio, dei banchi stretti
contro i portoni vendevano i dolci gommosi e i croccanti. Tutta la gente del
paese era scesa giù a festeggiare. Era la festa di Santa Lucia, che fino al
giorno prima, pensavo essere la santa che porta i doni con Gesù bambino. Ma poi
Gigi mi ha detto che è falso, che in realtà Santa Lucia è un'invenzione degli
adulti.
«Va bene», disse la sorella.
Neppure feci in tempo a mettermi il
loden che Gigi mi afferrò un braccio e mi spinse fuori. A testa bassa perforava
la folla che riempiva il carruggio. C’erano i bambini sulle bici, le
ragazze che ridevano, gli uomini che
fumavano la pipa, lo zampognaro che soffiava fortissimo nel suo strumento al
centro della via; ma Gigi non ci badava, si vedeva che teneva una direzione,
come avesse in mente una meta precisa.
«Dove andiamo?» chiesi.
«Ti faccio vedere una cosa».
A metà del carruggio, svoltammo in un
passaggio stretto. Lì non c'era più nessuno, era buio e con l’odore della pipì
di gatto attaccata ai muri, ma in fondo si vedeva una porta illuminata. Gigi mi
trascinò dentro. Era una sala dalle pareti e il soffitto bianchi, con dei
piccoli fari puntati che disseminavano la luce dappertutto. Da terra si
alzavano dei piedistalli di ferro. C’erano degli uomini e delle donne che guardavano
le cose poste sui piedistalli. Biomorfismo vegetale, sentii sussurrare.
Mi avvicinai al piedistallo centrale.
Sollevandomi in punta di piedi, scrutai l'oggetto che c'era sopra. Era grigio,
screziato. Con delle sporgenze ondulate e un buco, alla base. Ci girai attorno.
Lo toccai. F-i-g-u-r-a-d-i-s-t-e-s-a, lessi sulla targhetta. Era levigato come
un osso.
Gigi apparve alle mie spalle.
«Cosa sono?» chiesi. Non avevo mai visto
niente così infatti.
«Dei pezzi di luna», spiegò. «Si sono
staccati quando gli americani sono atterrati nello spazio. Sono precipitati in
mare ma i corsari li hanno ripescati».
«Ne vorrei uno», dissi.
Gigi afferrò una forma e se la infilò
sotto il maglione.
Corremmo a perdifiato nei vicoli dietro
il carruggio, un incastro di stradine molto strette con gli zerbini sulla porta
e le pentole in fila contro i davanzali. Un portone coi campanelli arrugginiti
si sprangò dietro di noi e c'inghiottì in un androne che sapeva di muffa. Le
mani di Gigi mi appiccicarono i capelli alla testa, mi aprirono il primo
bottone del loden. La sua lingua spugnosa mi travasò in bocca della saliva. Io
non vivo sott'acqua, pensai.
martedì 11 dicembre 2012
Descrizione di ‘Imitationofdeath’ – drammaturgia di Ricci/Forte – Teatri di Vita – Bologna – dicembre 2012
C’è il nastro giallonero, segnale di area
pericolosa, che separa il palco dal pubblico, come a dirci: «Statevene lontano!
Qui sopra si agitano dei pazzi!».
E sul palco ci sono sedici corpi spogliati che soffiano aria dentro dei sacchetti sul genere di quelli in dotazione sull’aereo, per raccogliere il vomito, sì… Il sacchetto salta per aria e il corpo senza respiro si contrae per terra, è scosso da convulsioni che sono più comiche che dolorose, in verità.
Ci sono gli stessi corpi che calzano scarpe foderate del medesimo nastro adesivo giallonero, che arrancando sulla loro stampella personale, si rimettono in piedi, ma le calzature hanno improbabili tacchi a trampolo, così scivolano di continuo, finché all’improvviso, oplà! ecco che si lanciano in una Mazurka sfrenata, a copie!
C’è una ragazza che racconta tutti i pompini che ha fatto nella sua giovane vita per ciascuno indicando il tempo preciso che ha impiegato a ottenere il mirabile risultato.
Poi il nastro giallonero è reciso e i corpi si presentano al cospetto del pubblico, tutti per mano, con orgoglio a mostrar gli organi genitali, e poi di nuovo in coppia, a stuzzicarsi i capezzoli, prendersi al guinzaglio per il pene, tutti con maschera individuale in dotazione.
Ogni tanto c’è l’annuncio di una fantomatica nomination agli Oscar, The winner is…
E c’è una ragazza che come in un talkshow Mediaset pone dei dolorosi perché sulla sua vita agli ‘amici’ che le fanno da pubblico, e che a turno corrono da lei, per spiattellarle nei denti una crudele risposta.
C’è l’hip hop che diventa tecno che diventa lirica che diventa musica da balera.
C’è esibizione di sé, vergogna, empatia, bisogno dell’altro, strafottenza, burla, presa per i fondelli, vita vera (nascosta) e vita finta (esibita).
Ci sono gli oggetti, i superflui patetici demenziali oggetti del desiderio di ciascuno! il bagaglio personale che ogni performer rovescia per terra, poi ci va a rovistare in mezzo, perché lì è quel che si è costruito, tutto quel che ama. «È la mia vita», ci dice mostrandoceli ad uno ad uno raggiante come un bambino.
E c’è la frase che qualcuno pronuncia, mentre trascina uno straccio a terra, tra segnali stradali e carrelli per la pulizia, che la sapevamo, ma la ripetiamo, non si sa mai: «È solo attraverso l’assenza di vita che si rappresenta la vita».
E infatti.
E sul palco ci sono sedici corpi spogliati che soffiano aria dentro dei sacchetti sul genere di quelli in dotazione sull’aereo, per raccogliere il vomito, sì… Il sacchetto salta per aria e il corpo senza respiro si contrae per terra, è scosso da convulsioni che sono più comiche che dolorose, in verità.
Ci sono gli stessi corpi che calzano scarpe foderate del medesimo nastro adesivo giallonero, che arrancando sulla loro stampella personale, si rimettono in piedi, ma le calzature hanno improbabili tacchi a trampolo, così scivolano di continuo, finché all’improvviso, oplà! ecco che si lanciano in una Mazurka sfrenata, a copie!
C’è una ragazza che racconta tutti i pompini che ha fatto nella sua giovane vita per ciascuno indicando il tempo preciso che ha impiegato a ottenere il mirabile risultato.
Poi il nastro giallonero è reciso e i corpi si presentano al cospetto del pubblico, tutti per mano, con orgoglio a mostrar gli organi genitali, e poi di nuovo in coppia, a stuzzicarsi i capezzoli, prendersi al guinzaglio per il pene, tutti con maschera individuale in dotazione.
Ogni tanto c’è l’annuncio di una fantomatica nomination agli Oscar, The winner is…
E c’è una ragazza che come in un talkshow Mediaset pone dei dolorosi perché sulla sua vita agli ‘amici’ che le fanno da pubblico, e che a turno corrono da lei, per spiattellarle nei denti una crudele risposta.
C’è l’hip hop che diventa tecno che diventa lirica che diventa musica da balera.
C’è esibizione di sé, vergogna, empatia, bisogno dell’altro, strafottenza, burla, presa per i fondelli, vita vera (nascosta) e vita finta (esibita).
Ci sono gli oggetti, i superflui patetici demenziali oggetti del desiderio di ciascuno! il bagaglio personale che ogni performer rovescia per terra, poi ci va a rovistare in mezzo, perché lì è quel che si è costruito, tutto quel che ama. «È la mia vita», ci dice mostrandoceli ad uno ad uno raggiante come un bambino.
E c’è la frase che qualcuno pronuncia, mentre trascina uno straccio a terra, tra segnali stradali e carrelli per la pulizia, che la sapevamo, ma la ripetiamo, non si sa mai: «È solo attraverso l’assenza di vita che si rappresenta la vita».
E infatti.
giovedì 6 dicembre 2012
Della finzione, tutti a Roma!
'Siamo quel che fingiamo di essere', dice Kurt, 'dobbiamo dunque fare attenzione a quel che fingiamo di essere'.
Volevo dire che domani, a partire dalle h:15, sarò a Roma, Salone dei piccoli e medi editori PiùLibriPiùLiberi, stand Perdisa, M05, al piano terra, davanti al bar, per firma copie.
Se siete in zona, fatevi vedere, miei diciassette lettori.
mercoledì 5 dicembre 2012
Profumo nella città di P. - Aneddoto terzo
Le profumerie aprono in gran numero, nella città di
P., perché agli abitanti profumarsi piace. Esco dalla stazione, imbocco via
Garibaldi e ne supero una, due, tre, quattro perfino, di profumerie, a pochi
metri l’una dall’altra, e tutte che in vetrina esibiscono la famosa fragranza
‘Acqua di P.’, versione Colonia classica, Colonia assoluta, Iris nobile, Iris
sublime, variante shower gel al Bergamotto di Calabria, body lotion Mirto di
Panarea, in cofanetto natalizio candela aromatizzata e diffusore per l’ambiente
‘Acqua di P.’… Salgo sull’autobus e un’onda di agrume speziato mi sconquassa i
sensi, poi un’altra, ventate variabili, a seconda di chi sale, dell’ingombro
che occupa. A casa della sorella entro in bagno ed eccolo lì, sulla consolle,
il flacone di Colonia intensa prestige marchiato‘Acqua di P.’ E di fianco,
Prada infusion, Laura Biagiotti Roma, La Perla j’aime… La sorella spalanca la
porta e penso che morirò per asfissia. «Qui non si respira», dico scansando
l’aria. Lei mi guarda. Si sorprende. «È La Perla», dice, «non ti piace?». In
corridoio incrocio mio cognato, Tom Ford Noir. «E la stazione», dico mangiando una
fetta di prosciutto che, giuro, sa di Iris nobile, «quand’è che la finiscono?».
«Ah, non si sa», dice la sorella, «non ci sono soldi». I lavori sono bloccati,
da anni, ormai. «Non c’è una lira», dice mio cognato. Mentre succhio un
cannoncino alla crema che sa di gelsomino alcolico, mi viene da pensare che tra
i due fenomeni, il clamoroso buco di bilancio, intendo, le ruberie della classe
dirigente, e quel profumo che intasa l’anima, ci sia una relazione.
martedì 4 dicembre 2012
So it goes #32
«Il neoeletto candidato premier del Pd», dice Matteo
Renzi, «d’ora in poi è corretto che sia lui, a decidere il da farsi nel partito».
«Il Pd», dice Pier Luigi Bersani, «non è mica mio e di Renzi. Tutti sono
chiamati a dare una mano al suo rinnovamento». Queste battute mi fanno venire
in mente l’epitaffio che l’artista Marcel Duchamp fece incidere sulla sua
tomba. ‘D’altra parte’, dice, ‘ sono sempre gli altri, a morire’.
So so so.
lunedì 3 dicembre 2012
domenica 2 dicembre 2012
Racconto ucraino tradotto in italiano dal giapponese da una bambina
‘Un guanto’ (un racconto
dell'Ucraina)
È una giornata freddissima, nevica silenziosamente. C'è un guanto sulla terra nel bosco.
Forse qualcuno ha fatto caderlo?
Gli animali nel bosco lo trovano uno alla volta.
Il primo è un topo. Entra dentro nel guanto e decide di rimanere lì.
Perché ci sta bene e caldo.
Dopo il topo viene una rana.
E poi una lepre, una volpe, e un lupo.
Tutti rimangono dentro nel guanto, ma è già pieno lì con cinque animali.
L'ultimo è un orso. Anche lui vuole rimanere, ma non c'è abbastanza spazio per lui. Nonostante entra lo stesso.
Mentre si spingono e si urtarono arriva un uomo con un cane.
Tutti sei animali nel guanto si spaventano e scappano via velocemente.
Rimane ancora un guanto sulla terra nel bosco, e silenzio.
Solo un guanto sulla terra nel bosco. E silenzio nel bosco.
È una giornata freddissima, nevica silenziosamente. C'è un guanto sulla terra nel bosco.
Forse qualcuno ha fatto caderlo?
Gli animali nel bosco lo trovano uno alla volta.
Il primo è un topo. Entra dentro nel guanto e decide di rimanere lì.
Perché ci sta bene e caldo.
Dopo il topo viene una rana.
E poi una lepre, una volpe, e un lupo.
Tutti rimangono dentro nel guanto, ma è già pieno lì con cinque animali.
L'ultimo è un orso. Anche lui vuole rimanere, ma non c'è abbastanza spazio per lui. Nonostante entra lo stesso.
Mentre si spingono e si urtarono arriva un uomo con un cane.
Tutti sei animali nel guanto si spaventano e scappano via velocemente.
Rimane ancora un guanto sulla terra nel bosco, e silenzio.
Solo un guanto sulla terra nel bosco. E silenzio nel bosco.
sabato 1 dicembre 2012
Giorgio Gaber - La democrazia
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