«Faccetta ne-era», canto
spolverando sulla libreria i romanzi nel reparto Americana, «bell’abissi-ina…». «Cioè?» dice
Max. «…Aspetta e spera che già l’o-ra s’avvici-ina…», canto. «Sì?». M’interrompo:
bisogna che gli spieghi. «Mia madre sempre la cantava mentre stirava le camicie
di mio padre», dico. «Mica perché fosse fascista. No, perché era la canzone
della sua infanzia… Mio padre un giorno le disse Puoi cantare qualcos’altro,
per piacere? E da allora, non la cantò più. E mia madre non cantò più. Perché quella
era l’unica canzone che lei per intero conosceva». «E tuo padre, perché non le
ha insegnato ‘Bella ciao’?» dice Max. «Di fascismo e partigiani», dico, «mio padre
non parlava». Dopo la faccenda di El Alamein e i cinque anni da prigioniero in
Libia, mio padre, di guerra, non parlava. «Ma prova a pensare», dico spolverando
‘Foglie morte’, «come se nella tua infanzia, non la canzone di Atlas Ufo Robot
ci fosse, bensì solo e unicamente la musica di ‘Giovinezza’. Prova a pensare».
giovedì 31 gennaio 2013
martedì 29 gennaio 2013
lunedì 28 gennaio 2013
Col giornalista gastronomico in visita al museo archeologico
Le guide ai giornalisti gastronomici s’infittivano.
Ero l’unico referente delle Sgambate Guide Combattenti sulla città.
Incontrai un ragazzo dalla capigliatura rossa; completo verde su camicia salmone. Calzava scarpe dalla punta squadrata.
«Italiane», disse con orgoglio. «Comprate al duty free».
Era atterrato quella mattina, proveniente dal Galles. Gli chiesi com'era andato il viaggio.
«Prosciutto e melanzane alla parmigiana», replicò.
Era decisamente di buon umore. Sorrideva a chiunque ci venisse incontro, lungo il tragitto che dall'hotel Holiday conduceva in piazza.
Decisi di approfittarne per rispolverare un po' le mie conoscenze di arte antica.
«Che ne dice di fare un salto al museo archeologico?» domandai.
«Ottima idea», rispose.
Su piazza Maggiore c'era una competizione sportiva. La pista si annodava su se stessa a spirale. Gli spettatori si accalcavano alle transenne agitando bandierine con sopra i nomi degli sponsor. I numeri appiccicati sulla schiena, si sgranchivano le gambe prima dell'inizio della gara. Un altoparlante sparava Freddy Mercury che cantava We are the champions.
«Devono smaltire tutto quello che mangiano, eh», disse il gallese. Sbirciava i maratoneti più corpulenti e panciuti.
«Può darsi», dissi.
Ma questo museo è lontano?» s'informò.
«Proprio girato l'angolo». Dopo pochi minuti eravamo nell'atrio.
Posto davanti alla biglietteria di un qualsiasi esercizio pubblico, il giornalista gastronomico viene di solito preso da un attacco di panico. Questo luogo è infatti nel suo immaginario una specie di bocca spilladenari. Lo coglie la paura che di tasca propria debba pagare per l'ingresso. A differenza dei cibi e delle bevande, il costo del biglietto non è infatti incluso nel rimborso spese che la Provincia gli concede. La cosa che occorre fare e all'istante è senz'altro rassicurarlo.
Tranquillo! bisogna dirgli, il museo è gratuito! Ci si può godere tre piani d'esposizione di anfore, ossari e fibule senza scucire un quattrino! La bigliettaia, l'han messa lì per vendere i cataloghi e le cartoline… Non per niente la città è stata eletta nel Duemila capitale europea della cultura. Perché i giornalisti gastronomici che se ne vanno a scrocco per le sue strade, oltre che il cibo, possano a gratis sbafarsi anche pietrate di archeologia!
Vidi che tirava un sospiro di sollievo. Non così profondo e liberatorio come quelli che i giornalisti cacciano fuori seduti al tavolo di un ristorante tipico, per la verità. Scroccare un bifacciale in pietra dà meno soddisfazione che sbafarsi una punta di vitello. Ma comunque, sembrava di nuovo rilassato.
Sbirciò la bigliettaia, intenta a stendersi lo smalto sulle unghie. Si chiama Michela. E' una ragazza dal viso angelico. Non l'ho mai vista fare nient'altro che spennellarsi le unghie. La salutai.
«C'è movimento?» domandai sarcastica.
«Il solito maniaco che telefona a metà mattina».
Eravamo gli unici nella sala.
«Le due opere che c'interessano», cominciai, «sono proprio qui. Questa di sinistra è una stele del primo secolo avanti Cristo. Raffigura un allevatore di maiali con i suoi animali. Quella di destra, del secondo secolo dopo Cristo, mostra invece un oggetto».
Il giornalista mosse qualche passo.
«Cos'è?» domandò scrutando il bassorilievo.
«Un mortaio. Ci si metteva dentro la carne tritata», raccontai, «dopo che già era rimasta a marinare in un composto di aceto, pepe, chiodi di garofano. Poi si aggiungeva la cannella, la noce moscata, lo zenzero e il cumino. E con questo ripieno, si insaccavano gli intestini dei maiali».
La ricetta tradizionale della mortadella, mi aveva detto Clizia, bisogna che te la impari. Tanto per raccontare qualcosa, s'intende. Sappiamo bene che l'insaccato che ci propinano oggi è un surrogato della gomma, ma carissima, quello che conta nel nostro mestiere, mi aveva spiegato Clizia, è la capacità di creare suggestione. Soprattutto, si era raccomandata, insisti sulla presenza delle spezie; l'oriente fa sempre un certo effetto.
«La mortadella, ha presente?».
«No», disse lui.
«Quella rosa a pallini bianchi».
… Rosa a pallini bianchi, scrisse.
«La parola 'mortadella' deriva proprio da mortaio».
«Ah sì?».
«Già».
Mi sentii stranamente fiera di avergli trasmesso quella notizia veritiera.
Salutammo Michela intenta a cancellare un'unghia venuta male, e ci avviammo verso il Tempio della Mortadella.
[dalla Guida gastronomica]
Incontrai un ragazzo dalla capigliatura rossa; completo verde su camicia salmone. Calzava scarpe dalla punta squadrata.
«Italiane», disse con orgoglio. «Comprate al duty free».
Era atterrato quella mattina, proveniente dal Galles. Gli chiesi com'era andato il viaggio.
«Prosciutto e melanzane alla parmigiana», replicò.
Era decisamente di buon umore. Sorrideva a chiunque ci venisse incontro, lungo il tragitto che dall'hotel Holiday conduceva in piazza.
Decisi di approfittarne per rispolverare un po' le mie conoscenze di arte antica.
«Che ne dice di fare un salto al museo archeologico?» domandai.
«Ottima idea», rispose.
Su piazza Maggiore c'era una competizione sportiva. La pista si annodava su se stessa a spirale. Gli spettatori si accalcavano alle transenne agitando bandierine con sopra i nomi degli sponsor. I numeri appiccicati sulla schiena, si sgranchivano le gambe prima dell'inizio della gara. Un altoparlante sparava Freddy Mercury che cantava We are the champions.
«Devono smaltire tutto quello che mangiano, eh», disse il gallese. Sbirciava i maratoneti più corpulenti e panciuti.
«Può darsi», dissi.
Ma questo museo è lontano?» s'informò.
«Proprio girato l'angolo». Dopo pochi minuti eravamo nell'atrio.
Posto davanti alla biglietteria di un qualsiasi esercizio pubblico, il giornalista gastronomico viene di solito preso da un attacco di panico. Questo luogo è infatti nel suo immaginario una specie di bocca spilladenari. Lo coglie la paura che di tasca propria debba pagare per l'ingresso. A differenza dei cibi e delle bevande, il costo del biglietto non è infatti incluso nel rimborso spese che la Provincia gli concede. La cosa che occorre fare e all'istante è senz'altro rassicurarlo.
Tranquillo! bisogna dirgli, il museo è gratuito! Ci si può godere tre piani d'esposizione di anfore, ossari e fibule senza scucire un quattrino! La bigliettaia, l'han messa lì per vendere i cataloghi e le cartoline… Non per niente la città è stata eletta nel Duemila capitale europea della cultura. Perché i giornalisti gastronomici che se ne vanno a scrocco per le sue strade, oltre che il cibo, possano a gratis sbafarsi anche pietrate di archeologia!
Vidi che tirava un sospiro di sollievo. Non così profondo e liberatorio come quelli che i giornalisti cacciano fuori seduti al tavolo di un ristorante tipico, per la verità. Scroccare un bifacciale in pietra dà meno soddisfazione che sbafarsi una punta di vitello. Ma comunque, sembrava di nuovo rilassato.
Sbirciò la bigliettaia, intenta a stendersi lo smalto sulle unghie. Si chiama Michela. E' una ragazza dal viso angelico. Non l'ho mai vista fare nient'altro che spennellarsi le unghie. La salutai.
«C'è movimento?» domandai sarcastica.
«Il solito maniaco che telefona a metà mattina».
Eravamo gli unici nella sala.
«Le due opere che c'interessano», cominciai, «sono proprio qui. Questa di sinistra è una stele del primo secolo avanti Cristo. Raffigura un allevatore di maiali con i suoi animali. Quella di destra, del secondo secolo dopo Cristo, mostra invece un oggetto».
Il giornalista mosse qualche passo.
«Cos'è?» domandò scrutando il bassorilievo.
«Un mortaio. Ci si metteva dentro la carne tritata», raccontai, «dopo che già era rimasta a marinare in un composto di aceto, pepe, chiodi di garofano. Poi si aggiungeva la cannella, la noce moscata, lo zenzero e il cumino. E con questo ripieno, si insaccavano gli intestini dei maiali».
La ricetta tradizionale della mortadella, mi aveva detto Clizia, bisogna che te la impari. Tanto per raccontare qualcosa, s'intende. Sappiamo bene che l'insaccato che ci propinano oggi è un surrogato della gomma, ma carissima, quello che conta nel nostro mestiere, mi aveva spiegato Clizia, è la capacità di creare suggestione. Soprattutto, si era raccomandata, insisti sulla presenza delle spezie; l'oriente fa sempre un certo effetto.
«La mortadella, ha presente?».
«No», disse lui.
«Quella rosa a pallini bianchi».
… Rosa a pallini bianchi, scrisse.
«La parola 'mortadella' deriva proprio da mortaio».
«Ah sì?».
«Già».
Mi sentii stranamente fiera di avergli trasmesso quella notizia veritiera.
Salutammo Michela intenta a cancellare un'unghia venuta male, e ci avviammo verso il Tempio della Mortadella.
[dalla Guida gastronomica]
domenica 27 gennaio 2013
sabato 26 gennaio 2013
Risposta
«Quando non si sa come comportarsi
oppure che direzione imprimere alla propria vita», dice Picche, «due sono i
luoghi dove andar a cercare la risposta». Parla così perché mi vede distratta,
che ho dei pensieri amari. «Il primo è il romanzo ‘Il piccolo principe’», dice.
«Eh?». Rido. Ma Picche è serio. «Senti, Picche», dico, «’Il piccolo principe’
l’ho letto a dodici anni e già allora non mi ha granché impressionato e poi in
questo preciso momento, per tua conoscenza, leggo e con supremo diletto, le
prose del Petrarca, per capirci, dunque non vedo perché… L’altro luogo dove
cercare qual è?». «Le canzoni di Vasco», dice Picche. Le canzoni?... Fantastico Picche, penso. «Vabbe’», dico, «senti… gradisci una sfrappola?».
Ma poi quando va via, corro a vedermi in rete il nuovo singolo di Vasco, uscito
proprio qualche giorno fa, ma così, solo per curiosità. E a un certo punto, dopo
le parole tipiche vaschesche o vaschiane, ecco una frase che testuale dice ‘te la prendi te
la responsabilità’. Vabbe’, penso, sì. Ma queste parole con forza mi si piantano nel
cervello. Nel senso che entrando in posta, il pomeriggio, penso Te la prendi te la
responsabilità, leggendo Petrarca, la sera, penso Te la prendi te la… Te la prendi te, te la prendi te... Picche darling, era
proprio la risposta che cercavo.
venerdì 25 gennaio 2013
Soliloqui
Scrivo sempre soliloqui. Cose che
mi dico a quattr’occhi.
[Ludwig Wittgenstein, op.cit., pag. 34]
[Ludwig Wittgenstein, op.cit., pag. 34]
giovedì 24 gennaio 2013
Le persone serie
Le persone serie sono prima di
tutto immorali. […]
Le persone serie sono in secondo
luogo estremistiche. […]
Le persone serie sono in terzo
luogo teppistiche. […]
Le persone serie sono in quarto
luogo falsamente pratiche. […]
Le persone serie sono in quinto
luogo falsamente idealistiche. […]
Le persone serie sono in sesto
luogo ottuse. […]
Le persone serie sono in settimo
luogo adulatrici. […]
Le persone serie sono in ottavo
luogo razziste. […]
Le persone serie sono in nono
luogo sessuofobe. […]
Le persone serie in decimo luogo
(e questo è l’unico punto parzialmente a loro vantaggio) sono prive di spirito.
[Pier Paolo Pasolini, Lettere
luterane – Come sono le persone serie? – op.cit., pgg.159-164]
mercoledì 23 gennaio 2013
So it goes #41
«Io sono un’antigarantista
esistenziale», dico a Zelda. È davanti al pc, legge Il Corriere on line. «Nel
senso che penso che in partenza, tutti nasciamo colpevoli, e che a ciascuno stia poi
di dimostrare, col comportamento, di essere innocente». «Tu sei calvinista»,
dice Zelda. «No, la coscienza non c’entra», dico, «neanche l’etica, né la
religione. Ma il principio può diventare socialmente utile… Dato che se ognuno,
per salvarsi le chiappe, è tenuto a mostrare il lato meno schifoso di sé,
magari l’umanità ne guadagna in qualità». «Guarda qui!» fa lei. In diretta legge la notizia della
voragine finanziaria che oggi travolge l’istituto del Monte dei Paschi di
Siena, di nuovo i derivati, il denaro pubblico che servirà per ripianare il
disastro annunciato. «Robespierre», dice, «sulla scheda elettorale, io ci scrivo
Maximilien de ROBESPIERRE, lista collegata: PERIODO DEL GRANDE TERRORE, così
scrivo, altro che antigarantista!». ‘Antigarantista esistenziale’, prego, Zelda,
questa è l’espressione. Ma non insisto, in questo caso, no.
So it goes, dice Kurt.
martedì 22 gennaio 2013
Skipetari
CERCASI professore d’albanese parlato per ore serali. Rivolgersi, ecc., ecc.
Ore serali…: era il posto fatto per me. C’era anche la condizione
dell’albanese: ma io sono sempre stato d’avviso che per insegnare i principii
di una lingua a chi non la sa affatto, basta impararli di mano in mano che si
insegnano. Così avrei potuto fare in quell’occasione. Del resto non ero del
tutto digiuno di lingua albanese. Sapevo che gli albanesi si chiamano
skipetari. Non basta: un mio amico di Portocannone (Campobasso) che come ognuno
sa è terra albanese inghiottita da secoli dal vorace imperialismo italiano, mi
aveva spesso parlato della sua lingua madre; non avevo più sottomano
quell’amico, ma ricordavo che in albanese ferro di cavallo si diceva paktòj, e al plurale paktòjt. Avrei poi, se combinavo
l’affare, comprata una grammatica albanese: per intanto le mie cognizioni mi
parvero sufficienti per presentarmi al luogo indicato.
Era una piccola ‘Scuola privata
di Commercio’. Il direttore era un abruzzese magretto e malinconico, di poche
parole. Mi disse rapidamente, senza guardarmi:
- Albania, grande avvenire. Un
commerciante deve sapere un po’ d’albanese.
- Certo – feci io – gli skipetari
in generale non sanno l’italiano.
- Albanese pratico, intendiamoci.
In pochissimo tempo, uno deve poter scendere in Albania, chiedere ciò che gli
occorre senza far ridere.
- Già – colsi io la palla al
balzo – se va dal maniscalco perché gli si è sferrato un cavallo, sapere almeno
che un ferro solo si dice paktòj e
più d’uno paktòjt.
Ebbi lì per lì paura d’essere
stato troppo cretino con quell’uscita: che invece ebbe ottimo effetto perché si
pattuì subito.
[Massimo Bontempelli, La vita
intensa, op.cit., pgg.86-87]
lunedì 21 gennaio 2013
Sciò!
«Sciò! Sciò!» dice Max nel sonno. Gli metto una mano sulla spalla. «Sciò! Sciò!» dice. Mi alzo. Sul terrazzo davanti tre coppie di ragazzi ballano il tango, riconosco Gardel, la fisarmonica strascicata, nunca ms volvi seguir sus pasos… Sono le tre, piove a dirotto. «Sciò! Sciò!» dice Max. Perfino sono vestiti da tangueros, con quelle scarpette, sapete. Per terra c’è ‘Les choses’. La gatta se lo sta leggendo. Lo alterna al catalogo di ‘Maisons du monde’, che poi è la stessa faccenda, dice, ma con le foto, più dilettevole. «Sciò! Sciò!» dice Max nel sonno. Bisogna che me lo compri, un paio di scarpette da tango, penso, col cinturino di vernice, il tacco a rocchetto, le suole che scivolano sul pavimento. Sciò! Sciò! penso a quell’attitudine mentale, he venido a contarte mi mal, penso.
domenica 20 gennaio 2013
So it goes #40
«Io sono d’accordo con Andy
Warhol», dico, «quando dice che l’arte nasce da uno spazio vuoto». «Penso
adesso ci pensi?» dice Zelda. Siamo dentro un bar, c’è un gran casino, tutti
appresso al loro smartphone di merda. «È questo teatrino, capisci, reale e
virtuale, il meccanico consenso, lo sproloquio di parole, sono le adulazioni,
le calunnie, il far finta di, è l’esibizionismo, il parlar di sé… Tutto questo
mi fa soffrire… Bisogna fare il vuoto per fare arte, disse Andy Warhol». Zelda
si sistema il cappello col fiore di lana cotta. Coi cappelli sta da dio, Zelda.
«Io penso anche», dico, «come scrive Parise, che per fare dell’arte non bisogna
fare dell’arte». Così lei mi guarda, tira un sospiro di impazienza. «Va bene»,
dice, «ma l’arte chi se la fila, eh? Trovami uno solo in questo bar che si fili
l’arte! Nessuno! Si filano il teatrino, il fottuto teatrino!».
So.
sabato 19 gennaio 2013
So it goes #39
«Questa cosa che ha ribadito, quando
era da Santoro, per esempio», dico. «Sì, insomma, che se vince, cambia la
costituzione, rafforza i poteri del presidente del consiglio…». «E allora?»
dice Max. Sta impastando i canederli. Ogni tanto gli viene di cucinare il
goulasch, questo piatto della sua infanzia sudtirolese. «Be’, non mi esce di
testa», dico, «mi rende inquieta». «Ma mica vince». «E chi lo giura?... Lo sai
quanti fatti incredibili stan succedendo, di questi tempi? Tipo Pannella che
coi radicali nel Lazio dan l'appoggio a Storace? Grillo che dice i sindacati
sono entità inutili? Che ascolti Fini e Vendola dialogare e scopri che sull’immigrazione
la pensano praticamente in modo identico? Non ha tutto questo dell’incredibile?».
Max forma delle grosse palle di pane, speck, uova, le depone sul tagliere, in
fila perfetta. «No, nell’aria c’è qualcosa, di questi tempi», dico, «per la
quale i poli opposti sembra che convergano, una specie di simmetrico ribaltamento
del significato». «Sarà per un fatto astrologico?...» mi sfotte Max. «I canederli,
di questi tempi», dico, «ti ricordo che l’ultima volta ti si erano perfino spaccati».
So it goes, dice Kurt, so so so.
venerdì 18 gennaio 2013
So it goes #38
«Hey little girl is it good to you», canto,
«can you do all the things that I can do ooh...». Bruce Springsteen, io lo
detesto. Solo in due circostanze canto Bruce Springsteen: quando mi assale un
attacco di sfrenata ironia oppure per abissale masochismo. Masochismo, in
questo caso: il suo nome è Pier Luigi Bersani. «Ho scelto la canzone di
accompagnamento alla campagna elettorale del Pd», dice Bersani. E va bene. «È
una canzone molto bella. Di Gianna Nannini», dice. E va bene, anche sotto un
profilo estetico, intendo. «S’intitola ‘Inno’», dice Bersani. […] Come? Inno?!
Tipo una roba patriottica? S'intende la celebrazione a qualcosa? Una dedica solenne? Ai
politici? Al popolo che è sovrano? Alla democrazia televisiva? Agli ultimi anni di straordinaria
fioritura culturale? Che noi siamo, per dire, i figli dei fiori della nazione? Bersani,
darling, ma chi è il genio della comunicazione del Pd? Ma l’hai capito che gli
italiani, il parlamento, emiciclo ligneo compreso, lo deporterebbero a spalar letame
in Africa? Che la parola ‘politica’, in questo preciso momento storico, sa per
tutti più di sterco che di salame piacentino? Bersani, ascoltami, per piacere: questa
è la voce di un’elettrice tua conterranea che alle primarie ha votato Matteo Renzi:
ripensaci. Scegli un’altra canzone, un titolo qualsiasi ma più consono alla furia cieca,
al desiderio di rivolta sociale. «Bersani», canto, «I got a bad desire».
So so so.
martedì 15 gennaio 2013
lunedì 14 gennaio 2013
Descrizione della regia multimediale di La Fura del Baus alla Trilogia romana di Ottorino Respighi - direttore Juraj Valčuha – orchestra del Teatro Comunale di Bologna - Teatro Manzoni – Bologna 12 gennaio 2013
C’è un sipario-schermo che separa
gli orchestrali dal pubblico che è come una gigantesca retina oculare; assorbe immagini
trasparenti, direttamente le filtra sul corpo dei musicisti, e sui loro corpi
quelle immagini si attaccano, per poi miseramente andare in frantumi. Ogni tanto
il sipario si alza e la storia sloggia sullo schermo applicato al fondo del
palcoscenico; si allontana da noi che non siamo più nell’illusione fatata,
più così partecipi.
Ci sono i tre elementi: fuoco (Feste romane), acqua (Le fontane di Roma) aria (I pini di Roma).
Dentro un rotolante cerchio
infiammato si muove l’uomo di Leonardo (Circenses)
che di rinascimentale niente ha più però, poveretto, perché le fiamme gli bruciano
le chiappe, e la misura di tutte le cose sta da un’altra parte… Il fuoco avvolge
perfino gli ignari musicisti. E dal fuoco è corretto che si cominci a
raccontare, dalla sua dinamica distruzione.
E ci sono i pellegrini, le
sagome attaccate allo schermo, che marciano verso Roma (Giubileo), volanti e aeree come certe figurine di Magritte, ma non
facciamo paragoni.
Ci sono le strade, i palazzi
della capitale, i muri sui quali passano spezzoni di film, il grande cinema, la
vita, la morte, in tutte le epoche della storia, voci, urla, musiche, teatrini
scandalosi, lo strazio, poi un personaggio si stacca dalla parete e ce lo ritroviamo
in strada, in carne ed ossa, lì, che ci prende in giro, il marrano, fa il
saltimbanco. E sì, lo sappiamo, che ogni pietra è storia e fare la storia
significa calpestar pietre.
Gocce d’acqua piovana
picchiettano la superficie a specchio della vasca ne La fontana di Valle Giulia all’alba e delle altre celebri fontane
della Roma barocca, e le statue degli eroi si tramutano in aerobici trapezisti
che di mitologico non han più niente; si divertono. Viene da pensare che l’acqua
porti in sé qualcosa di festoso, il gioco dell’infanzia, la purezza (se la
purezza esiste), uno slancio di spensierata sincerità. Quando si entra nell'età
della vecchiaia, bisognerebbe ricordarsene, dell’acqua.
E ci sono due ragazzi, nudi, in
fuga tra I pini di Villa Borghese. Si
cercano, in realtà: lui insegue lei, le dà la caccia fino a un dirupo ed ecco
che, in bilico sul precipizio, le loro braccia si trasformano in rami, i piedi
in radici d’albero.
Ci sono file di alberi, nell’ultimo
movimento, I pini della Via Appia, che
marciano lungo l’antica strada come i soldati di un esercito vittorioso e tronfio, un
bosco in movimento (alla Macbeth) che sbarca in città, tra trombe e fanfare. E l’aria
diventa satura, come sempre quando si respira un vento di guerra.
No, preferisco vivere, si pensa allora.
venerdì 11 gennaio 2013
giovedì 10 gennaio 2013
mercoledì 9 gennaio 2013
Condizioni oltremodo favorevoli
Mi chinai per raccogliere la
sigaretta. Ma essa era caduta in una pozzanghera. Non ne avevo altre.
M’invase uno stupore tetro e
freddo. Il silenzio notturno mi fasciava tutto dalle case buie e serrate. Era
la sigaretta ultima. Tutto chiuso, in tutta la città. Fino a domani.
Quel domani mi pareva proiettarsi
in una distanza infinita e irraggiungibile del tempo.
Mi chinai di nuovo verso la
pozzanghera: la sigaretta si sfaceva dolorosamente nel fango. – A domani? Quale
domani?
Allora io, che avevo sopportato per
anni miserie fame freddi umiliazioni delusioni, i più acri e grotteschi scherni
della fortuna, serenamente col pensiero fisso al lontano avvenire – io ora,
sulla soglia della felicità non seppi sopportare il pensiero della disavventura
presente e l’aspettazione di un domani dal quale mi separavano poche ore
notturne; e venni in una così cupa e gelida disperazione, che tratta una
rivoltella mi sparai tre colpi alla tempia, rimanendo sull’istante cadavere.
[…] Solo parecchi anni dopo ho preso moglie e mi son messo a fare il
romanziere: due condizioni oltremodo favorevoli al ritrovamento e al
mantenimento della perfetta felicità.
[Massimo Bontempelli, La vita
intensa, Milano, Mondadori, 1938, pagg.112-113]
martedì 8 gennaio 2013
Per parlare di stelle
Il pezzo di cielo sopra il loro
capo era pieno di stelle. Tra stella e stella il nero del cielo era morbido,
respirava come un corpo vivo. Arianna così stando supina aveva negli occhi il
lume delle stelle.
In piedi al suo fianco Luciana
segnava il cielo e parlava.
«Arianna, io non credo alle
vecchie costellazioni. Io conosco quelle vere. Guarda quelle due stelle lucide
vicine: si parlano e cercano di gettarsi una verso l’altra: sono gli innamorati
divisi. Vedi quelle otto stelle, la prima su dritta sopra il comignolo, poi due
in curva a destra, tre a sinistra, altre due in alto in croce: quella è la nave
dell’amore: lo vedi il disegno della vela? va portando per il cielo gli amanti
che hanno saputo disprezzare la terra e le opinioni degli uomini. Ora voltati
un poco: guarda lungo il mio braccio, così, molto a sinistra della nave: c’è un
gruppo di quattro o cinque stelle quasi schiacciate una contro l’altra, e
tutt’intorno uno spolverio chiaro: è l’isola; ci vanno le persone che nel mondo
hanno saputo vivere in solitudine. […] Che cos’hai, Arianna?».
«Niente».
«Sono brividi di freddo. Prendi».
Luciana si tolse il mantello e lo
gettò addosso all’amica, che non se ne accorse, tanto era perduta.
[Massimo Bontempelli, Il figlio
di due madri, Milano, SE, 1989, pgg.137-138]
domenica 6 gennaio 2013
sabato 5 gennaio 2013
venerdì 4 gennaio 2013
giovedì 3 gennaio 2013
Pe pe rrr
Per dirla alla Beckett, vorrei
esser sdraiata comoda comoda nel mio letto, a putrefarmi pian piano, senza
dolore, tenendomi su con brodo di pollo, fino ad appiattirmi come un ferro da
stiro. Direi.
Pe pe pe rrr dir.
mercoledì 2 gennaio 2013
martedì 1 gennaio 2013
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