giovedì 31 gennaio 2013

Prova a pensare


«Faccetta ne-era», canto spolverando sulla libreria i romanzi nel reparto Americana, «bell’abissi-ina…». «Cioè?» dice Max. «…Aspetta e spera che già l’o-ra s’avvici-ina…», canto. «Sì?». M’interrompo: bisogna che gli spieghi. «Mia madre sempre la cantava mentre stirava le camicie di mio padre», dico. «Mica perché fosse fascista. No, perché era la canzone della sua infanzia… Mio padre un giorno le disse Puoi cantare qualcos’altro, per piacere? E da allora, non la cantò più. E mia madre non cantò più. Perché quella era l’unica canzone che lei per intero conosceva». «E tuo padre, perché non le ha insegnato ‘Bella ciao’?» dice Max. «Di fascismo e partigiani», dico, «mio padre non parlava». Dopo la faccenda di El Alamein e i cinque anni da prigioniero in Libia, mio padre, di guerra, non parlava. «Ma prova a pensare», dico spolverando ‘Foglie morte’, «come se nella tua infanzia, non la canzone di Atlas Ufo Robot ci fosse, bensì solo e unicamente la musica di ‘Giovinezza’. Prova a pensare».

martedì 29 gennaio 2013

lunedì 28 gennaio 2013

Col giornalista gastronomico in visita al museo archeologico

Le guide ai giornalisti gastronomici s’infittivano. Ero l’unico referente delle Sgambate Guide Combattenti sulla città.
Incontrai un ragazzo dalla capigliatura rossa; completo verde su camicia salmone. Calzava scarpe dalla punta squadrata.
«Italiane», disse con orgoglio. «Comprate al duty free».
Era atterrato quella mattina, proveniente dal Galles. Gli chiesi com'era andato il viaggio.
«Prosciutto e melanzane alla parmigiana», replicò.
Era decisamente di buon umore. Sorrideva a chiunque ci venisse incontro, lungo il tragitto che dall'hotel Holiday conduceva in piazza.
Decisi di approfittarne per rispolverare un po' le mie conoscenze di arte antica.
«Che ne dice di fare un salto al museo archeologico?» domandai.
«Ottima idea», rispose.
Su piazza Maggiore c'era una competizione sportiva. La pista si annodava su se stessa a spirale. Gli spettatori si accalcavano alle transenne agitando bandierine con sopra i nomi degli sponsor. I numeri appiccicati sulla schiena, si sgranchivano le gambe prima dell'inizio della gara. Un altoparlante sparava Freddy Mercury che cantava We are the champions.
«Devono smaltire tutto quello che mangiano, eh», disse il gallese. Sbirciava i maratoneti più corpulenti e panciuti.
«Può darsi», dissi.
Ma questo museo è lontano?» s'informò.
«Proprio girato l'angolo». Dopo pochi minuti eravamo nell'atrio.
Posto davanti alla biglietteria di un qualsiasi esercizio pubblico, il giornalista gastronomico viene di solito preso da un attacco di panico. Questo luogo è infatti nel suo immaginario una specie di bocca spilladenari. Lo coglie la paura che di tasca propria debba pagare per l'ingresso. A differenza dei cibi e delle bevande, il costo del biglietto non è infatti incluso nel rimborso spese che la Provincia gli concede. La cosa che occorre fare e all'istante è senz'altro rassicurarlo.
Tranquillo! bisogna dirgli, il museo è gratuito! Ci si può godere tre piani d'esposizione di anfore, ossari e fibule senza scucire un quattrino! La bigliettaia, l'han messa lì per vendere i cataloghi e le cartoline… Non per niente la città è stata eletta nel Duemila capitale europea della cultura. Perché i giornalisti gastronomici che se ne vanno a scrocco per le sue strade, oltre che il cibo, possano a gratis sbafarsi anche pietrate di archeologia!
Vidi che tirava un sospiro di sollievo. Non così profondo e liberatorio come quelli che i giornalisti cacciano fuori seduti al tavolo di un ristorante tipico, per la verità. Scroccare un bifacciale in pietra dà meno soddisfazione che sbafarsi una punta di vitello. Ma comunque, sembrava di nuovo rilassato.
Sbirciò la bigliettaia, intenta a stendersi lo smalto sulle unghie. Si chiama Michela. E' una ragazza dal viso angelico. Non l'ho mai vista fare nient'altro che spennellarsi le unghie. La salutai.
«C'è movimento?» domandai sarcastica.
«Il solito maniaco che telefona a metà mattina».
Eravamo gli unici nella sala.
«Le due opere che c'interessano», cominciai, «sono proprio qui. Questa di sinistra è una stele del primo secolo avanti Cristo. Raffigura un allevatore di maiali con i suoi animali. Quella di destra, del secondo secolo dopo Cristo, mostra invece un oggetto».
Il giornalista mosse qualche passo.
«Cos'è?» domandò scrutando il bassorilievo.
«Un mortaio. Ci si metteva dentro la carne tritata», raccontai, «dopo che già era rimasta a marinare in un composto di aceto, pepe, chiodi di garofano. Poi si aggiungeva la cannella, la noce moscata, lo zenzero e il cumino. E con questo ripieno, si insaccavano gli intestini dei maiali».
La ricetta tradizionale della mortadella, mi aveva detto Clizia, bisogna che te la impari. Tanto per raccontare qualcosa, s'intende. Sappiamo bene che l'insaccato che ci propinano oggi è un surrogato della gomma, ma carissima, quello che conta nel nostro mestiere, mi aveva spiegato Clizia, è la capacità di creare suggestione. Soprattutto, si era raccomandata, insisti sulla presenza delle spezie; l'oriente fa sempre un certo effetto.
«La mortadella, ha presente?».
«No», disse lui.
«Quella rosa a pallini bianchi».
… Rosa a pallini bianchi, scrisse.
«La parola 'mortadella' deriva proprio da mortaio».
«Ah sì?».
«Già».
Mi sentii stranamente fiera di avergli trasmesso quella notizia veritiera.
Salutammo Michela intenta a cancellare un'unghia venuta male, e ci avviammo verso il Tempio della Mortadella.
[dalla Guida gastronomica]

sabato 26 gennaio 2013

Risposta

«Quando non si sa come comportarsi oppure che direzione imprimere alla propria vita», dice Picche, «due sono i luoghi dove andar a cercare la risposta». Parla così perché mi vede distratta, che ho dei pensieri amari. «Il primo è il romanzo ‘Il piccolo principe’», dice. «Eh?». Rido. Ma Picche è serio. «Senti, Picche», dico, «’Il piccolo principe’ l’ho letto a dodici anni e già allora non mi ha granché impressionato e poi in questo preciso momento, per tua conoscenza, leggo e con supremo diletto, le prose del Petrarca, per capirci, dunque non vedo perché… L’altro luogo dove cercare qual è?». «Le canzoni di Vasco», dice Picche. Le canzoni?... Fantastico Picche, penso. «Vabbe’», dico, «senti… gradisci una sfrappola?». Ma poi quando va via, corro a vedermi in rete il nuovo singolo di Vasco, uscito proprio qualche giorno fa, ma così, solo per curiosità. E a un certo punto, dopo le parole tipiche vaschesche o vaschiane, ecco una frase che testuale dice ‘te la prendi te la responsabilità’. Vabbe’, penso, sì. Ma queste parole con forza mi si piantano nel cervello. Nel senso che entrando in posta, il pomeriggio, penso Te la prendi te la responsabilità,  leggendo Petrarca, la sera, penso Te la prendi te la… Te la prendi te, te la prendi te... Picche darling, era proprio la risposta che cercavo.

Marina Abramovic & Ulay, Imponderabilia, Bologna, Galleria d'Arte Moderna, 1977 [Una porta di carne]


venerdì 25 gennaio 2013

Soliloqui

Scrivo sempre soliloqui. Cose che mi dico a quattr’occhi.
[Ludwig Wittgenstein, op.cit., pag. 34]

giovedì 24 gennaio 2013

Pipilotti Rist, Ever is over all, audio videoinstallation, 1997 [smash and flowers]


Le persone serie


Le persone serie sono prima di tutto immorali. […]
Le persone serie sono in secondo luogo estremistiche. […]
Le persone serie sono in terzo luogo teppistiche. […]
Le persone serie sono in quarto luogo falsamente pratiche. […]
Le persone serie sono in quinto luogo falsamente idealistiche. […]
Le persone serie sono in sesto luogo ottuse. […]
Le persone serie sono in settimo luogo adulatrici. […]
Le persone serie sono in ottavo luogo razziste. […]
Le persone serie sono in nono luogo sessuofobe. […]
Le persone serie in decimo luogo (e questo è l’unico punto parzialmente a loro vantaggio) sono prive di spirito.
[Pier Paolo Pasolini, Lettere luterane – Come sono le persone serie? – op.cit., pgg.159-164]

 

mercoledì 23 gennaio 2013

So it goes #41

«Io sono un’antigarantista esistenziale», dico a Zelda. È davanti al pc, legge Il Corriere on line. «Nel senso che penso che in partenza, tutti nasciamo colpevoli, e che a ciascuno stia poi di dimostrare, col comportamento, di essere innocente». «Tu sei calvinista», dice Zelda. «No, la coscienza non c’entra», dico, «neanche l’etica, né la religione. Ma il principio può diventare socialmente utile… Dato che se ognuno, per salvarsi le chiappe, è tenuto a mostrare il lato meno schifoso di sé, magari l’umanità ne guadagna in qualità». «Guarda qui!» fa lei. In diretta legge la notizia della voragine finanziaria che oggi travolge l’istituto del Monte dei Paschi di Siena, di nuovo i derivati, il denaro pubblico che servirà per ripianare il disastro annunciato. «Robespierre», dice, «sulla scheda elettorale, io ci scrivo Maximilien de ROBESPIERRE, lista collegata: PERIODO DEL GRANDE TERRORE, così scrivo, altro che antigarantista!». ‘Antigarantista esistenziale’, prego, Zelda, questa è l’espressione. Ma non insisto, in questo caso, no.
 
So it goes, dice Kurt.

martedì 22 gennaio 2013

Skipetari

CERCASI professore d’albanese parlato per ore serali. Rivolgersi, ecc., ecc.
Ore serali…: era il posto fatto per me. C’era anche la condizione dell’albanese: ma io sono sempre stato d’avviso che per insegnare i principii di una lingua a chi non la sa affatto, basta impararli di mano in mano che si insegnano. Così avrei potuto fare in quell’occasione. Del resto non ero del tutto digiuno di lingua albanese. Sapevo che gli albanesi si chiamano skipetari. Non basta: un mio amico di Portocannone (Campobasso) che come ognuno sa è terra albanese inghiottita da secoli dal vorace imperialismo italiano, mi aveva spesso parlato della sua lingua madre; non avevo più sottomano quell’amico, ma ricordavo che in albanese ferro di cavallo si diceva paktòj, e al plurale paktòjt. Avrei poi, se combinavo l’affare, comprata una grammatica albanese: per intanto le mie cognizioni mi parvero sufficienti per presentarmi al luogo indicato.
Era una piccola ‘Scuola privata di Commercio’. Il direttore era un abruzzese magretto e malinconico, di poche parole. Mi disse rapidamente, senza guardarmi:
- Albania, grande avvenire. Un commerciante deve sapere un po’ d’albanese.
- Certo – feci io – gli skipetari in generale non sanno l’italiano.
- Albanese pratico, intendiamoci. In pochissimo tempo, uno deve poter scendere in Albania, chiedere ciò che gli occorre senza far ridere.
- Già – colsi io la palla al balzo – se va dal maniscalco perché gli si è sferrato un cavallo, sapere almeno che un ferro solo si dice paktòj e più d’uno paktòjt.
Ebbi lì per lì paura d’essere stato troppo cretino con quell’uscita: che invece ebbe ottimo effetto perché si pattuì subito.
[Massimo Bontempelli, La vita intensa, op.cit., pgg.86-87]

lunedì 21 gennaio 2013

Sciò!


«Sciò! Sciò!» dice Max nel sonno. Gli metto una mano sulla spalla. «Sciò! Sciò!» dice. Mi alzo. Sul terrazzo davanti tre coppie di ragazzi ballano il tango, riconosco Gardel, la fisarmonica strascicata, nunca ms volvi seguir sus pasos… Sono le tre, piove a dirotto. «Sciò! Sciò!» dice Max. Perfino sono vestiti da tangueros, con quelle scarpette, sapete. Per terra c’è ‘Les choses’. La gatta se lo sta leggendo. Lo alterna al catalogo di ‘Maisons du monde’, che poi è la stessa faccenda, dice, ma con le foto, più dilettevole. «Sciò! Sciò!» dice Max nel sonno. Bisogna che me lo compri, un paio di scarpette da tango, penso, col cinturino di vernice, il tacco a rocchetto, le suole che scivolano sul pavimento. Sciò! Sciò! penso a quell’attitudine mentale, he venido a contarte mi mal, penso.

domenica 20 gennaio 2013

So it goes #40

«Io sono d’accordo con Andy Warhol», dico, «quando dice che l’arte nasce da uno spazio vuoto». «Penso adesso ci pensi?» dice Zelda. Siamo dentro un bar, c’è un gran casino, tutti appresso al loro smartphone di merda. «È questo teatrino, capisci, reale e virtuale, il meccanico consenso, lo sproloquio di parole, sono le adulazioni, le calunnie, il far finta di, è l’esibizionismo, il parlar di sé… Tutto questo mi fa soffrire… Bisogna fare il vuoto per fare arte, disse Andy Warhol». Zelda si sistema il cappello col fiore di lana cotta. Coi cappelli sta da dio, Zelda. «Io penso anche», dico, «come scrive Parise, che per fare dell’arte non bisogna fare dell’arte». Così lei mi guarda, tira un sospiro di impazienza. «Va bene», dice, «ma l’arte chi se la fila, eh? Trovami uno solo in questo bar che si fili l’arte! Nessuno! Si filano il teatrino, il fottuto teatrino!».
 
So.

sabato 19 gennaio 2013

So it goes #39

«Questa cosa che ha ribadito, quando era da Santoro, per esempio», dico. «Sì, insomma, che se vince, cambia la costituzione, rafforza i poteri del presidente del consiglio…». «E allora?» dice Max. Sta impastando i canederli. Ogni tanto gli viene di cucinare il goulasch, questo piatto della sua infanzia sudtirolese. «Be’, non mi esce di testa», dico, «mi rende inquieta». «Ma mica vince». «E chi lo giura?... Lo sai quanti fatti incredibili stan succedendo, di questi tempi? Tipo Pannella che coi radicali nel Lazio dan l'appoggio a Storace? Grillo che dice i sindacati sono entità inutili? Che ascolti Fini e Vendola dialogare e scopri che sull’immigrazione la pensano praticamente in modo identico? Non ha tutto questo dell’incredibile?». Max forma delle grosse palle di pane, speck, uova, le depone sul tagliere, in fila perfetta. «No, nell’aria c’è qualcosa, di questi tempi», dico, «per la quale i poli opposti sembra che convergano, una specie di simmetrico ribaltamento del significato». «Sarà per un fatto astrologico?...» mi sfotte Max. «I canederli, di questi tempi», dico, «ti ricordo che l’ultima volta ti si erano perfino spaccati».
 
So it goes, dice Kurt, so so so.

venerdì 18 gennaio 2013

So it goes #38


«Hey little girl is it good to you», canto, «can you do all the things that I can do ooh...». Bruce Springsteen, io lo detesto. Solo in due circostanze canto Bruce Springsteen: quando mi assale un attacco di sfrenata ironia oppure per abissale masochismo. Masochismo, in questo caso: il suo nome è Pier Luigi Bersani. «Ho scelto la canzone di accompagnamento alla campagna elettorale del Pd», dice Bersani. E va bene. «È una canzone molto bella. Di Gianna Nannini», dice. E va bene, anche sotto un profilo estetico, intendo. «S’intitola ‘Inno’», dice Bersani. […] Come? Inno?! Tipo una roba patriottica? S'intende la celebrazione a qualcosa? Una dedica solenne? Ai politici? Al popolo che è sovrano? Alla democrazia televisiva? Agli ultimi anni di straordinaria fioritura culturale? Che noi siamo, per dire, i figli dei fiori della nazione? Bersani, darling, ma chi è il genio della comunicazione del Pd? Ma l’hai capito che gli italiani, il parlamento, emiciclo ligneo compreso, lo deporterebbero a spalar letame in Africa? Che la parola ‘politica’, in questo preciso momento storico, sa per tutti più di sterco che di salame piacentino? Bersani, ascoltami, per piacere: questa è la voce di un’elettrice tua conterranea che alle primarie ha votato Matteo Renzi: ripensaci. Scegli un’altra canzone, un titolo qualsiasi ma più consono alla furia cieca, al desiderio di rivolta sociale. «Bersani», canto, «I got a bad desire».

 
So so so.

lunedì 14 gennaio 2013

Descrizione della regia multimediale di La Fura del Baus alla Trilogia romana di Ottorino Respighi - direttore Juraj Valčuha – orchestra del Teatro Comunale di Bologna - Teatro Manzoni – Bologna 12 gennaio 2013

C’è un sipario-schermo che separa gli orchestrali dal pubblico che è come una gigantesca retina oculare; assorbe immagini trasparenti, direttamente le filtra sul corpo dei musicisti, e sui loro corpi quelle immagini si attaccano, per poi miseramente andare in frantumi. Ogni tanto il sipario si alza e la storia sloggia sullo schermo applicato al fondo del palcoscenico; si allontana da noi che non siamo più nell’illusione fatata, più così partecipi.
Ci sono i tre elementi: fuoco (Feste romane), acqua (Le fontane di Roma) aria (I pini di Roma).
Dentro un rotolante cerchio infiammato si muove l’uomo di Leonardo (Circenses) che di rinascimentale niente ha più però, poveretto, perché le fiamme gli bruciano le chiappe, e la misura di tutte le cose sta da un’altra parte… Il fuoco avvolge perfino gli ignari musicisti. E dal fuoco è corretto che si cominci a raccontare, dalla sua dinamica distruzione.
E ci sono i pellegrini, le sagome attaccate allo schermo, che marciano verso Roma (Giubileo), volanti e aeree come certe figurine di Magritte, ma non facciamo paragoni.
Ci sono le strade, i palazzi della capitale, i muri sui quali passano spezzoni di film, il grande cinema, la vita, la morte, in tutte le epoche della storia, voci, urla, musiche, teatrini scandalosi, lo strazio, poi un personaggio si stacca dalla parete e ce lo ritroviamo in strada, in carne ed ossa, lì, che ci prende in giro, il marrano, fa il saltimbanco. E sì, lo sappiamo, che ogni pietra è storia e fare la storia significa calpestar pietre.
Gocce d’acqua piovana picchiettano la superficie a specchio della vasca ne La fontana di Valle Giulia all’alba e delle altre celebri fontane della Roma barocca, e le statue degli eroi si tramutano in aerobici trapezisti che di mitologico non han più niente; si divertono. Viene da pensare che l’acqua porti in sé qualcosa di festoso, il gioco dell’infanzia, la purezza (se la purezza esiste), uno slancio di spensierata sincerità. Quando si entra nell'età della vecchiaia, bisognerebbe ricordarsene, dell’acqua.
E ci sono due ragazzi, nudi, in fuga tra I pini di Villa Borghese. Si cercano, in realtà: lui insegue lei, le dà la caccia fino a un dirupo ed ecco che, in bilico sul precipizio, le loro braccia si trasformano in rami, i piedi in radici d’albero.
Ci sono file di alberi, nell’ultimo movimento, I pini della Via Appia, che marciano lungo l’antica strada come i soldati di un esercito vittorioso e tronfio, un bosco in movimento (alla Macbeth) che sbarca in città, tra trombe e fanfare. E l’aria diventa satura, come sempre quando si respira un vento di guerra.
No, preferisco vivere, si pensa allora.

mercoledì 9 gennaio 2013

Condizioni oltremodo favorevoli

Mi chinai per raccogliere la sigaretta. Ma essa era caduta in una pozzanghera. Non ne avevo altre.
M’invase uno stupore tetro e freddo. Il silenzio notturno mi fasciava tutto dalle case buie e serrate. Era la sigaretta ultima. Tutto chiuso, in tutta la città. Fino a domani.
Quel domani mi pareva proiettarsi in una distanza infinita e irraggiungibile del tempo.
Mi chinai di nuovo verso la pozzanghera: la sigaretta si sfaceva dolorosamente nel fango. – A domani? Quale domani?
Allora io, che avevo sopportato per anni miserie fame freddi umiliazioni delusioni, i più acri e grotteschi scherni della fortuna, serenamente col pensiero fisso al lontano avvenire – io ora, sulla soglia della felicità non seppi sopportare il pensiero della disavventura presente e l’aspettazione di un domani dal quale mi separavano poche ore notturne; e venni in una così cupa e gelida disperazione, che tratta una rivoltella mi sparai tre colpi alla tempia, rimanendo sull’istante cadavere. […] Solo parecchi anni dopo ho preso moglie e mi son messo a fare il romanziere: due condizioni oltremodo favorevoli al ritrovamento e al mantenimento della perfetta felicità.
[Massimo Bontempelli, La vita intensa, Milano, Mondadori, 1938, pagg.112-113]
 

martedì 8 gennaio 2013

Per parlare di stelle

Il pezzo di cielo sopra il loro capo era pieno di stelle. Tra stella e stella il nero del cielo era morbido, respirava come un corpo vivo. Arianna così stando supina aveva negli occhi il lume delle stelle.
In piedi al suo fianco Luciana segnava il cielo e parlava.
«Arianna, io non credo alle vecchie costellazioni. Io conosco quelle vere. Guarda quelle due stelle lucide vicine: si parlano e cercano di gettarsi una verso l’altra: sono gli innamorati divisi. Vedi quelle otto stelle, la prima su dritta sopra il comignolo, poi due in curva a destra, tre a sinistra, altre due in alto in croce: quella è la nave dell’amore: lo vedi il disegno della vela? va portando per il cielo gli amanti che hanno saputo disprezzare la terra e le opinioni degli uomini. Ora voltati un poco: guarda lungo il mio braccio, così, molto a sinistra della nave: c’è un gruppo di quattro o cinque stelle quasi schiacciate una contro l’altra, e tutt’intorno uno spolverio chiaro: è l’isola; ci vanno le persone che nel mondo hanno saputo vivere in solitudine. […] Che cos’hai, Arianna?».
«Niente».
«Sono brividi di freddo. Prendi».
Luciana si tolse il mantello e lo gettò addosso all’amica, che non se ne accorse, tanto era perduta.
[Massimo Bontempelli, Il figlio di due madri, Milano, SE, 1989, pgg.137-138]
 

 

sabato 5 gennaio 2013

Pe pe

Per dirla alla Anne Sexton, non sono pigra, sono fatta di anfetamine dell’anima.
Pe pe pe.

venerdì 4 gennaio 2013

Per dir

Per dirla alla “Freak” Antoni, se uno s’impegna, può star male ovunque.
Per dir.

 

giovedì 3 gennaio 2013

Pe pe rrr

Per dirla alla Beckett, vorrei esser sdraiata comoda comoda nel mio letto, a putrefarmi pian piano, senza dolore, tenendomi su con brodo di pollo, fino ad appiattirmi come un ferro da stiro. Direi.
Pe pe pe rrr dir.

mercoledì 2 gennaio 2013

Pe pe



Per dirla alla David Byrne, there’s a party in my mind, direi.
Pe pe pe rrr dir-la.