giovedì 28 febbraio 2013

Se lo dice il premio Nobel

Lo scrittore franco-algerino Albert Camus, premio Nobel per la letteratura nel 1957, ha scritto: «Vi è solo un problema filosofico veramente serio: il suicidio».
Ecco che ancora una volta la letteratura ci dà occasione di farci un sacco di risate: Camus morì in un incidente stradale. Quanto ha vissuto? Dal 1913 al 1960.
Vi rendete conto che tutta la grande letteratura – ‘Moby Dick’, ‘Huckleberry Finn’, ‘Addio alle armi’, ‘La lettera scarlatta’, ‘Il segno rosso del coraggio’, l’Iliade, l’Odissea, ‘Delitto e castigo’, la Bibbia e ‘The Charge of the Light Brigade’ di Tennyson – parla di che fregatura sia la vita degli esseri umani? (Non è liberatorio che qualcuno lo dica chiaro e tondo?)
[Kurt Vonnegut, op.cit., pag.16]

mercoledì 27 febbraio 2013

So it goes #43

«Condurre un’esistenza di sforzi», canto a squarciagola mimando Elio diventato obeso, «tallonando la chimera di una melodia composita…». È una frase, questa, che fa venire in mente Bersani, penso, la big depression che accompagna la sinistra dal potere risicato (l’espressione ‘melodia composita’ Vendola in particolare). «Che poi alla fine scopri», canto, «che ti bastava quella sola nota… bellissima-aa». E qui rivedo Berlusconi, la menzogna sul sorriso dentato, misoginia cavalleresca. «La canzone mononota», canto, «che non fa scendere a compromessi… e se lo fa, il compromesso è piccolo». Ed ecco Grillo, rayban, scapigliatura… L’Harley Davidson dov’è?.«…Ma Jobin non ha avuto le palle di perseguire un obiettivo», canto a squarciagola, «non ci ha creduto fino in fondo». Monti, il cucciolo Trozzy che gli scondizola tra le pieghe del doppiopetto gessato. «Invece noi… sì», canto. Questa è l’Italia. L’Italia siamo noi.
 
So so.

martedì 26 febbraio 2013

So it goes #42

C’è Zelda al telefono. «Si può fare qualcosa?» dice. «Ho svitato tutti i filtri dei rubinetti, stanotte», dico, «li ho raschiati col Viakal».

 So it goes, dice Kurt.

domenica 24 febbraio 2013

Sono la ragazza che traduce nel linguaggio dei segni, tradurre i segni in altri segni è tutto quel che so fare


Descrizione della mostra dell’artista Jan Bas Ader – Tra due mondi - Villa delle Rose, Bologna – fino a marzo 2013

Westkapelle, Holland, 1971, foto a colori
C’è la storiella che si racconta, di un Jan Bas Ader bambino che per l’intero semestre, a scuola, componeva i suoi disegni su di un unico foglio, cancellando poi le figure, per far posto alle nuove, a loro volta cancellate così che il foglio alla fine sempre vuoto era. Come dire: «Quel che m’interessa è dare forma alla mia idea. Quando l’idea sulle sue gambe cammina, chi se ne frega della forma».
Chi se ne frega dell’arte? dice l’arte e tutto quel che ha fatto nella sua breve vita Jan Bas Ader. Questo ragazzo è il più grande artista concettuale al quale l’Olanda abbia dato i natali e della sua arte, unico incontrastato protagonista.
C’è un video, per esempio, nel quale Jan Bas Ader sta in piedi, le braccia parallele, al centro di una strada lastricata che attraversa un parco, e sullo sfondo vediamo il faro di Westkapelle, quello del celebre dipinto di Piet Mondrian (Westkapelle, Holland, 1971). Jan cerca di rimanere dritto, ma poi solleva un piede; finisce che perde l’equilibrio, ruzzola a terra. Altroché eliminare la direttrice diagonale, perpetua ossessione di Mondrian. Altroché scacciare ‘il predominio del tragico nella vita attraverso l’arte’. Guardare il tragico come si manifesta nella vita, semmai, dice Jan, con effetti che, non crediate, possono perfino essere esilaranti.
C’è Jan Bas Ader su una roccia, e dietro di lui il mare in tempesta, Jan che mostra il cartello ‘Fire’, una specie di Monaco in riva al mare alla C.D. Friedrich ma in una versione allarmistica che fa sorridere (Untitled – The elements, 1971). E viene in mente la definizione che Jean Baudrillard diede dell’ironia, quando disse che è ‘unica forma spirituale del mondo moderno’. Ha ragione. Ci si ricorda della fierezza con la quale, oltre quattro secoli prima, Albrecht Dürer si era autoritratto (Melancholia I, 1514) e bene si capisce il destino sfigato dell’intellettuale oggi. Platonismo addio. Ingegnarsi su come stare a galla palleggiando i propri pensieri.
Untitled, The elements, 1971, foto a colori
C’è un uomo, sempre lui, Jan, che di una scatola in cartone ha fatto la sua casa. L’ha piazzata nel mezzo di un bosco. Ci sta seduto dentro, si prepara il tè delle cinque. Poi la scatola si chiude e l’uomo scompare. C’è una scatola nel bosco. Apparire/scomparire (Untitled – Tea party, 1972).
Lo stesso uomo piange, in un video, immobile; la telecamera spietata inquadra la faccia umida di lacrime, le smorfie di dolore che la contraggono. Eppure non ci sono lamenti, il video è muto. Questo è il mio atroce dolore, e lì niente c’è di concettuale (I’m too sad to tell you, 1971).
E niente c’è di concettuale nella scritta gigante che campeggia sul muro della galleria, cancellata per metà, per un attacco di dignità, forse; ‘Please don’t leave me’, dice. Sto da cani, hai capito? Le mie parole sono lì che te lo dicono. Le parole sono tutto quel che ho per dirtelo.
Poi c’è l’uomo-che-cade. Dal tetto di una house americana, dove se ne stava acrobaticamente seduto su una sedia. Da una bici che devia, lungo una strada di Amsterdam, e va a finire giù dritta in un canale. Dal ramo di un albero, al quale l’uomo si è aggrappato, per lasciarsi andare nell’acqua di sotto (Fall I, Fall II, Broken fall - organic, 1975). E lì c’immaginiamo Mack Sennett, che una sera se ne vada a cena con Samuel Beckett, per esempio. Voglio dire, mica c’interessa chi dei due pagherà il conto, no di certo.
C’è che la vita degli uomini è costellata di micro/macro naufragi. A bordo di un cargo che affondò al largo della California, Jan Bas Ader dall’Europa raggiunse l’America, che aveva scelto come patria d’elezione. E su una barca a vela di pochi metri affondata nell’oceano Atlantico, s’interruppe la sua vita mentre dall’America tentava il ritorno in Europa. Molto romantico, direte voi, ma quell’impresa folle, perché? Per portare a compimento una performance che s’intitolava, pensate un po’, In search of the miraculous. No, pensateci. Era il 1975.
E infine dico: come si fa a non adorare un ragazzo che il giorno delle nozze, combinate con la gentile consorte in quel di Las Vegas, si presenta all’altare con tanto di stampelle?
 
 
                                        
 

 

 

giovedì 21 febbraio 2013

Disprezzo del danaro, pranzo con gli amici

Ho sempre avuto un grande disprezzo del danaro; non perché non mi piacesse essere ricco, ma perché detestavo le preoccupazioni e le seccature che sono compagne inseparabili dell’essere ricchi. Non ebbi la possibilità di lauti banchetti, e perciò non ebbi da fissarci il pensiero: ma io mangiando poco e semplicemente passai la vita più contento che con le loro raffinatissime tavole tutti i successori di Apicio. I banchetti – li chiamano così, ma sono gozzoviglie, nemiche della moderazione e del vivere costumato - non mi sono mai piaciuti, ed ho giudicato una fatica inutile invitarvi gli altri e dagli altri esservi invitato. Ma pranzare con gli amici mi è sempre piaciuto, tanto che nulla mi è stato più gradito che averli come commensali, e mai di mia volontà ho mangiato senza compagnia.
[Francesco Petrarca, Ai posteri, op.cit., pag.5]

mercoledì 20 febbraio 2013

In gioventù potevo piacere

Sono stato uno della vostra specie, un pover’uomo mortale di classe sociale né elevata né bassa; di antica famiglia […], di temperamento per natura né malvagio né senza scrupoli; se non fosse stato guastato dal contatto abituale con esempi contagiosi. L’adolescenza mi illuse, la gioventù mi traviò, ma la vecchiaia mi ha corretto […]. Da giovane m’era toccato un corpo non molto forte, ma assai agile. Non mi vanto d’aver avuto una gran bellezza, ma in gioventù potevo piacere; di colore vivo tra bianco e bruno, occhi vivaci e per lungo tempo di una grandissima acutezza, che contro ogni aspettativa mi tradì passati i sessanta, in modo da costringermi con riluttanza all’uso delle lenti. La vecchia prese possesso d’un corpo che era stato sanissimo e lo circondò con la solita schiera di acciacchi.
[Francesco Petrarca, Ai posteri - 1350 c. -, op.cit., trad. dal latino a cura di Pier Giorgio Rizzi, pag.3]

martedì 19 febbraio 2013

Per una vana speranza di gloria, correr sotto il sole del mezzodì

Agostino: Non ti consiglierò mai di vivere senza gloria; ma del pari ti ammonirò sempre del non preferire la ricerca della gloria a quella della virtù. Tu sai che la gloria è quasi come l’ombra della virtù: pertanto, come nel nostro mondo non è possibile che il corpo colpito dal sole non faccia ombra, così non può accadere che la virtù non produca gloria. […] Anche qui non posso trattenere dall’usare con te della tua stessa testimonianza: «essa, anche se tu la fugga, pur contro tua voglia ti seguirà». […] Matto sembrerebbe chi si mettesse a correre con gran fatica sotto il sole del mezzodì, per vedere la propria ombra e mostrala agli altri; ma non è punto più saggio chi fra gli ardori della vita va intorno con grande fatica per diffondere largamente fama di sé. […] Tu pertanto che, pur in tempi come questi, ti maceri con tante fatiche a scrivere libri, sia detto con tua pace, t’inganni d’assai; perché dimentico dell’utile tuo, ti dai tutto a quello degli altri; e così, per una vana speranza di gloria, questo brevissimo tempo dell’esistenza, senza che tu te n’accorga, ti fugge via.
[Francesco Petrarca, Il mio segreto. Libro terzo – 1340 c. -, dalle Prose, Milano, Ricciardi editore, 1960, trad. dal latino a cura di E. Carrara, pag. 207]
 

venerdì 15 febbraio 2013

Non c'è niente da fare

Dopo pranzo, mentre spolvero i libri in studio, dal romanzo ‘Ritorna, dr. Caligari’ scivola fuori una cartolina. Una di quelle dalla superficie traslucida, sapete, che inclinandole, si innesca il movimento delle sagome disegnate sopra, e se ne provoca lo spostamento. Le figure compiono un gesto, si animano. La donna s'inchina sul tavolo e solleva un vaso. Il bambino si alza da terra e allarga le braccia per afferrare una palla. Poi, ribaltando la cartolina in avanti, ecco che le figure magicamente ritrovano la loro posizione iniziale. Ritornano statiche. Così io mi domando Dove risiede la loro vera natura? Nella posizione di partenza? Nella postura finale provocata dal ribaltamento? No, no, e questo è chiaro, fin dall’inizio, a chi guarda la cartolina. Voi lo sapete, lo sapete tutti, che l’identità della figura sta nello slittamento da una posizione all'altra. E non c'è niente da fare, è un'identità inafferrabile, un punto di vista in movimento.
 

giovedì 14 febbraio 2013

La parola ‘puttana’

Alle tre, dopo aver fatto i compiti, prima dell'arrivo della Rossana, prendevo fuori il Quaderno delle Parole e cercavo sul Nuovissimo Dizionario quelle che avevo lasciato indietro nei giorni passati: 'licenza', 'crepitare', 'furbesco'.
Da quando avevo cominciato con le Descrizioni, trascuravo infatti la ricerca delle parole. Mentre ero impegnata nella Descrizione capitava però che la parola esatta e insostituibile per quella frase alla mente non mi venisse. Non la trovo perché non la conosco, pensavo. Così mi convinsi che la ricerca della parola è un esercizio indispensabile e molto strettamente collegato allo svolgimento della Descrizione che mai bisogna abbandonare se si intende migliorare e spaziare negli argomenti prescelti.
Sul Nuovissimo Dizionario cercai il nome 'puttana' che aveva fatto così infuriare mia madre, ma non c'era. Chiesi alla Rossana se sapeva cosa voleva dire.
Quel giorno l'aveva accompagnata sua madre. L'Agnese è indisposta, aveva detto. La signora Anna era vestita per uscire, col cappello e il cappotto: doveva andare a scuola a una riunione di maestre.
«Puttana è una donna che si fa baciare da tutti», spiegò la Rossana. «Gli uomini le danno i soldi e quello è il suo mestiere». Disse che l'aveva visto in un film: una puttana che saliva su un'Alfa Romeo nera con alla guida un uomo pelato. Scrissi la definizione sul Quaderno.
Io penso infatti che questo genere di parole, anche se non sono contenute nel Nuovissimo Dizionario, non si può escluderle dalle Descrizioni. Perché per raccontare la vita come è vissuta per davvero, le Descrizioni è indispensabile che parlino di tutto, di quegli argomenti che mettono paura o fanno schifo compresi. Le Descrizioni devono obbligare a guardare anche quello che non si vuole vedere. Io penso che dappertutto c'è una storia.
[da Le descrizioni]

martedì 12 febbraio 2013

Il piovano s’è dato al giòco

Oggi sono alla bona ed alla mano
E mando a farsi fottere i pensieri.
Entra in cucina, amico paesano,
dammi quei tu’ ditoni forti e neri.
 
Questo è un fiasco di vin di Carmignano,
ecco il pane col cacio, ecco i bicchieri,
e questo qui gli è un sigaro toscano
di quelli asciutti e scuri, di que’ veri.
 
E si sta tanto meglio intorno al fòco
A parlar del cognato e della zia
O del piovano che s’è dato al giòco

o di quella ragazza che andò via
che diventar nervoso, giallo e ròco
con una sbornia di filosofia!
[Giovanni Papini, Incontadinamento – 14 novembre 1912]

lunedì 11 febbraio 2013

Giochetti di questo tipo

C’è una cosa che devo dire in difesa dell’umanità: in qualunque epoca della storia, dal Paradiso Terrestre in poi, gli uomini si sono semplicemente ritrovati sulla terra di punto in bianco. E, tranne che nel Paradiso Terrestre, esisteva già tutta una serie di giochetti che potevano far dare di matto a una persona anche se non era matta di suo. Fra i giochetti di questo tipo al giorno d’oggi ci sono l’odio e l’amore, il progressismo e il conservatorismo, le automobili e le carte di credito, il golf e la pallacanestro femminile.
[Kurt Vonnegut, Un uomo senza patria, Roma, Minimum fax, 2006, pgg.16-17 – trad.it. Martina Testa]
 

domenica 10 febbraio 2013

Descrizione della regia al Macbeth di Verdi ad opera di Robert Wilson, allestimento del teatro comunale di Bologna, direttore d’orchestra Roberto Abbado – teatro comunale di Bologna – febbraio 2013

Non c’è alcun castello di Macbeth. La casa del cattivo eroe è la notte immobile e blu, desertata dagli oggetti. Perché due sole cose contano nella notte: gli uomini e la luce.
La luce illumina gli uomini e ce li fa vedere come per davvero sono, qual è la loro anima.
Non può che essere spietata, la luce. Brutalmente scopre una faccia, strappa un gesto dall’oscurità. La luce è basica, cristallina nel significato che fa riemergere: bianco accecante quando parla della smania di potere, rosso rubino quando parla di morte.
C’è un Macbeth-samurai senza onore, tronfio e compresso nell’armatura, con un bizzarro copricapo cornuto calcato in testa, nel primo atto. E c’è Lady Macbeth, geisha crudele che il kimono rigido più che aspirante sovrana, trasforma in eroina spaziale.
Le loro facce sono maschere coperte di cerone bianco, marcate dal trucco pesante degli attori del teatro kabuki. Shakespeare, sono sicura che avrebbe approvato; Verdi, non so.
Ci sono le streghe, gli incappucciati provenienti dall’oltretomba che tra le mani reggono degli strani misteriosi oggetti. Li voltano verso di noi e d’un tratto si capisce cosa nascondono dentro: uno scoppio di luce segmentata, un riflettore che acceca. Luce, luce, dunque. Le profezie possono far scoppiare il cervello: lustrini e morte.
E ancora, ci sono due strisce al neon di luce bianco incandescente che man mano cambiano di posto, nel buio del palcoscenico. Si spezzano nei lampi del temporale sul bosco, poi sono gli stipiti di una porta che Macbeth mai varcherà, oppure ancora sono i lati del tavolo del banchetto più spettrale e folle nel quale mai la storia del teatro ci abbia catapultato.
C’è la luna ogni tanto, che si assottiglia, si riempie, si muove su stessa. E un gigantesco parasole arancio che ruotando rotola sulla scena, e lì si capisce il colossale abbaglio, perché il sole di notte non c’è, è chiaro.
Gli incubi da sveglio di Macbeth sono la sedia sospesa sul tavolo del banchetto, alias spettro-di-Banco e gli otto scheletri-burattini, messi in fila, in ordine d’altezza decrescente, perfino, a spenzolargli alle spalle, ovvero gli spiriti dei predecessori che senza troppi complimenti ha fatto fuori.
Lady Macbeth, algida, che gli dice: «Voi siete demente!» è in assoluto la Lady più stilizzata nella quale ci si possa imbattere nella vita. E sfido Madama Butterfly a dire il contrario. Sfido Akira Kurosawa, anche, che pure del Macbeth si era appassionato.
La scena, bellissima, sempre, della macchia che non c’è, con Lady Macbeth che si sfrega e dice: «È qui tutt’ora… via, ti dico, o maledetta!» è tutta un oceano nero poi il rosso sangue attaccato allo sfondo, e in quel momento, pensi che niente al mondo, davvero niente dica il sentimento della colpa (o la colpa come sentimento) come quella macchia.
La frase di Macbeth, alla morte di Lady: «La vita, che importa?... È solo il racconto di un povero idiota», Bignami di Shakespeare che arriva all’improvviso, va insieme alle mani inondate di luce dell’uccisore, e in quel gesto bloccate ormai per sempre.
Tutto è statico come solo la fine della vita. Nemmeno la foresta si Birna si muove verso l’usurpatore.
La sua trappola, Macbeth, se l’è costruita da solo, l’ha scavata dentro di sé. È il suo ego. By bye love, bye bye happiness.
 

martedì 5 febbraio 2013

I papuani e Facebook

«Quando parlo con un papuano - dice Jared Diamond, antropologo – mi dà tutta la sua attenzione, invece che giusto qualche sguardo di sottecchi mentre traffica col suo smartphone. I papuani che vivono in società tribali passano molto tempo a parlare tra loro, si scambiano ogni volta grandi quantità di informazioni minuziose su tutto quello che succede […]. Mi è capitato diverse volte, nei miei 48 anni di viaggi di studio in Nuova Guinea, di non riuscire a dormire perché i miei amici papuani si svegliavano nel cuore della notte per riprendere una conversazione che avevamo interrotto poche ore prima […]. La costante prossimità fisica e le continue interazioni sociali in Nuova Guinea hanno un vantaggio: i papuani sviluppano abilità sociali più marcate rispetto a quelle che abbiamo noi, assuefatti a Facebook. Quando la società internazionale che estrae petrolio in Papua Nuova Guinea dovette negoziare l’accesso ai terreni con i proprietari terrieri, mandò in loco i suoi avvocati per negoziare con gli abitanti dei villaggi, analfabeti che non erano mai stati lontano dalle loro zone. Gli occidentali pensavano di avere gioco facile e invece i papuani, abituati alle continue negoziazioni faccia a faccia che fanno parte della loro vita quotidiana fecero ammattire gli avvocati e ottennero tutto ciò che volevano».
[‘L’Occidente in crisi? Vada a lezione dall’amico papuano’, intervista di Giuliano Aluffi a Jared Diamond, pubblicata su Il Venerdi di Repubblica del 1 febb. 2013, pag.60]
 

lunedì 4 febbraio 2013

Abominevoli scuolette, ritrovare un proprio modello di vita


Ora, ogni apertura a sinistra sia della scuola che della televisione non è servita a nulla: la scuola e il video sono autoritari perché statali, e lo stato è la nuova produzione (produzione di umanità). Se dunque i progressisti hanno veramente a cuore la condizione antropologica di un popolo, si uniscano intrepidamente a pretendere l’immediata cessazione delle lezioni della scuola dell’obbligo e delle trasmissioni televisive. Un quarticciolo senza abominevoli scuolette e abbandonato alle sue sere e alle sue notti, forse sarebbe aiutato a ritrovare un proprio modello di vita.
[Pier Paolo Pasolini, op.cit., pgg.170-171]

 

sabato 2 febbraio 2013

La sfacciataggine della mia erudizione

Divenni una specie di Gorgia da caffè che, per vendicarsi della certezza perduta e della superbia fiaccata, si divertiva a dissolvere e disseccare le fedi degli altri; a rovesciare i loro tentativi di teoria e di affermazione valendosi non solo della loro debolezza e ignoranza ma anche della propria malafede e pessima volontà. Provavo gusto a mettere dubbi in testa ai dogmatici; a far tacere gli ardenti; a ridicoleggiare i fanatici; a umiliare i chiacchieratori. Era un piacere amaro, cattivo, sterile, ma ci provavo gusto. Era la mia sola vendetta. Andavo apposta a cercare gli altri non per convincerli di qualcosa, come prima, ma per dissuaderli, per renderli ancora una volta simili a me.
Pochissimi mi resistevano. Il parlare animoso, la facilità d'improvvisazione, la pratica della scherma dialettica, l'esperienza delle diverse filosofie, la sfacciataggine della mia erudizione bibliografica mi davano il più delle volte il sopravvento.
[Giovanni Papini, op.cit., pag.63]