martedì 28 febbraio 2012

A pranzo da Linda

Era successo che eravamo andati a pranzo a casa di Linda.
Linda è stata mia compagna del liceo. Dalla maturità che non la incontravo. Pensavo non l'avrei rivista mai più. Che le nostre vite si fossero separate davanti al punteggio d'esame. Già a quattordici anni, sapeva ciò che voleva dalla vita: fare la mamma. Si trattava di trovare qualcuno col quale realizzare questo altro essere umano. Tra i banchi di scuola non parlava d'altro.
C'incontrammo per caso, all’Ikea. Erano passati vent'anni, ma la riconobbi all'istante, mentre sfiorava uno scolapiatti smaltato nel reparto cucina. Era identica a come l'avevo lasciata. Capelli boccoluti tenuti da spille, golfino coi bottoni madreperla. Stavo superandola, quando sentii una mano planare sulla mia spalla. Troppo tardi, mi ricordo che pensai.
“Mika mi aiutava nei compiti in classe”, raccontò al marito, un ragazzo dagli occhi a palla alla Lucarelli. “E alla fine ce la facevo. A settembre non ero mai rimandata”, disse cullando la bambina.
Lei si girò, afferrò un mestolo cromato e glielo spinse in bocca.
“Ginny, da brava… Perché non venite domenica a pranzo?”.
Da dietro una tenda velata, Max mi lanciò un'occhiata sofferente.
Ginny si sfilò una scarpa e la gettò a terra con rabbia.
“Non ti devi sdebitare”, dissi. “Io ci credevo davvero che la filosofia e la storia servissero a qualcosa nella vita”.
“Ah sì?”.
Risero.
“Mika ha sempre avuto il dono dell'ironia”, spiegò Linda al marito.
Ma io non scherzavo. Non scherzavo affatto.
Max, ormai non lo vedevo più.
La domenica, dunque, andammo a pranzo da loro. 

Abitavano, come molte giovani coppie della città, la porzione di una villetta a schiera, facciata in mattoncini regolari. Il giardino era un prato ben rasato. Il garage sul retro custodiva l'auto familiare. La palazzina era situata davanti a una rotonda che si snoda sulla rampa di accesso in tangenziale.
“Una posizione magnifica”, disse Linda.
“Si arriva in città in un attimo”, aggiunse il marito.
“Il supermercato è proprio dietro l'angolo”.
“L'asilo è di fianco al supermercato”.
“La banca è di fianco all'asilo”, concluse Linda.
“E il panorama… non è affatto male!” esclamò il marito indicando il mega poster in tangenziale di Eva Erzigova che si strizza le tette nel reggiseno imbottito. Lanciò a Max uno sguardo complice. Lui si grattò i capelli irritato.
“La signorina”, ripeté, “non è male”.
Linda fece un risolino.
Sono allergica alla normalità, dicevo.
Mangiammo tortelloni, arrosto di vitello, torta di riso. Lei metteva a scaldare nel forno, estraeva. Tutto preparato da sua madre.
“Tu usi le vaschette d’alluminio?” mi domandò.
Io non devo mai scaldare niente, dissi.
“Sono molto pratiche. Se hai degli avanzi, intendo”.
Non ho avanzi. Gli hamburger, li mangiamo subito.
Dopo pranzo ci trasferimmo in salotto, sul divano operato a fiori lillà. Il marito afferrò il telecomando e selezionò Milanchannel. Quella domenica, il Milan giocava contro la squadra della città.
“Voi non avete il satellite?” chiese a Max.
“No”.
“E con le partite, come fai?”.
Lui non disse niente. Max, gli allenatori, gli sponsor, i diritti televisivi, il mondo del calcio in generale, lo detesta in assoluto. Una massa di coglioni arrapati dietro una figa a forma di palla, dice dei calciatori.
Linda mi raccontò di quando la figlia non aveva fatto la cacca per due settimane, e del momento in cui questa era finalmente uscita, sotto forma di diarrea liquida, color giallo senape.
“Un torrente in piena”, sospirò accarezzando la chioma ricciuta di Ginny. “Il water si era tutto intasato. Non è vero, amore?”.
La bambina spalancò gli occhi come una bambola meccanica. Poi il viso si contrasse e scoppiò in pianto. Gli arti le si mossero in modo scoordinato. Si divincolò dalle ginocchia della madre, scese a terra e cominciò a battere la testa contro il pavimento.
“Tesoro, passami Poison Diva”, disse Linda al marito: “Ginny vuole giocare”.
Lui si mosse alla ricerca del videogioco, senza staccare gli occhi dal video. I calciatori ci correvano sopra in diagonale, fluidi come su un tappeto di velluto.
“Doveva giocare Maldini”, scosse la testa.
Max osservava la carta da parati.
Linda mi parlò di come sua madre cucinasse le scaloppine al Marsala usando il Cognac; di quando Ginny aveva preso l'influenza perché ancora doveva vaccinarsi; di quella volta che il frigo era strippato perché troppo carico.
Protetta, sotto le gambe del padre, la bambina guidava con gesto scattante i pulsanti del videogioco.
“Qui c'era fallo”, diceva lui.
Max fissava il lampadario anni Settanta.
Cominciai a osservare i soprammobili. Erano dappertutto. Solo sul tavolino di vetro, davanti al divano, ne contavo almeno una cinquantina. Sui ripiani della libreria senza libri, una trentina circa per ogni piano. Ballerine, scolari in divisa, donne impegnate con utensili domestici, bambini che imbracciavano mazzi di fiori, animali, coppie di innamorati, alberi da frutto, contadine che spingevano carretti carichi di spighe. E' atroce, pensavo.
“Ma tu le melanzane, le friggi?” mi domandava la mia ex compagna.
E' atroce. E' atroce.
“Tu”, ripeté Linda, “le melanzane, le friggi?”.
“Come?”.
“Le melanzane”.
Non riuscivo a staccare gli occhi dalla statuetta di una ricamatrice.
“Noi mangiamo poco”, intervenne Max.
Linda rise: “Buona, questa battuta”.
“Non è una battuta”, disse lui serio.
“Amore, hai sentito? Paolo?...”.
Era a gambe divaricate sul tappeto, il busto sbilanciato in avanti, le ombre dei calciatori che gli correvano in faccia.
“Fallo di mano!” strillò.
Ginny scagliò il videogioco contro il muro.
“Complimenti per la simpatia”, disse il marito salutandoci. “Formate proprio una bella coppia. A quando un erede?”.
“La gente può essere mostruosa”, commentò Max girando la chiave nel cruscotto.
[dalla Guida gastronomica al precipizio]




martedì 21 febbraio 2012

La giostra


Eppure sono stata una bambina ostinata. Una di quelle ragazzine pestifere che sempre otteneva quel che voleva. Un giorno, mi ricordo che passeggiavo con mio padre sul viale alberato di una località in montagna. Era l'inizio dell'estate. Arrivammo a uno slargo dove c'era una giostra posta su un piedistallo che girava. Come fosse ieri, ricordo il bambino seduto sulla giostra. Mai in vita mia ho visto un essere umano più felice di quel bambino. I suoi occhi riflettevano una gioia immensa. La felicità di questo bambino è essere seduto sulla giostra, pensai. Voglio salire anch'io, dissi a mio padre. Lui scosse la testa. Così mi gettai per terra. A pancia in giù sull'asfalto, urlai con quanto fiato avevo in gola Voglio salire sulla giostra! Voglio salire! Sei testarda come un mulo, disse mio padre inserendo duecento lire nel congegno meccanico.

martedì 14 febbraio 2012

Storia


I miei genitori, mai che li abbia visti litigare. L'unico litigio possibile tra loro era che mia madre aveva lasciato una piega sulla camicia di mio padre. Così lui gliela appoggiava sull'asse da stiro affinché la rifinisse. Mentre mi faccio la barba, diceva garbato, dagli un colpetto, per piacere. Mia madre inamidava il colletto, ci passava sopra il ferro sbuffante. In comune avevano un solo interesse: a nessuno dei due piacevano i film di guerra. Mio padre, perché era stato soldato in Africa. Mia madre, perché la violenza le metteva paura. Il giorno prima di morire, mio padre era in ospedale ricoverato per un'ulcera duodenale. Guardò mia madre che s'infilava il soprabito e disse all'infermiera La vede, quella signora? Be', è stato il mio unico amore. Mia madre arrossì, la borsetta le scivolò di mano, cadde a terra. Degli oggetti si rovesciarono sul pavimento. Scemo, gli disse. Mio padre rise. È un po' svanita, disse, ma mi piace così. Scemo, ripeté mia madre. Cinquant'anni anni di vita insieme. Quando mio padre morì, mia madre morì con lui. Fine della storia.

martedì 7 febbraio 2012

Crediti


L'immagine che vedete sullo sfondo è l'opera 'Orango su cassetta' (ceramica policroma, 2004) del duo imolese Bertozzi&Casoni. Dalla cassetta, spuntano una zuppiera decorata a fiori e le posate che l'orango dal corpo rugginoso maldestramente impugna. Ma sembra contenere un po' di tutto, la cassetta; ciò di cui l'orango ha bisogno, forse i resti di qualcosa. L'ho scelta perché, parafrasando Flaubert, quest'orango che spiattella (con le parole o con gli scarti di queste) sono io. 'Il pattume', dice uno dei due artisti in un'intervista, 'se togli la puzza, è meraviglioso'. 

domenica 5 febbraio 2012

So it goes

Quando un tralfamadoriano vede un cadavere, l'unica cosa che pensa è che il morto, in quel momento, è in cattive condizioni, ma che la stessa persona sta benissimo in un gran numero di altri momenti. Oggi anch'io, quando sento dire che è morto qualcuno, alzo le spalle e dico ciò che i tralfamadoriani dicono dei morti, e cioè: 'Così va la vita'.
[Kurt Vonnegut, Mattatoio n.5, trad.di L.Brioschi, Milano, Feltrinelli, 2003, p.33]