«Il giornalista
gastronomico che dovrai intrattenere sul tortellino è italiano», m’informò
Clizia.
«Uhm».
«Un torinese».
«E perché non
si arrangia da solo?».
«Mika, mi
raccomando. Fammi fare bella figura. Chissà mai che non ci mandi qualche
collega danaroso. Incantalo coi tuoi begli occhioni. Fallo sognare». Aggiunse
che aspettava l'arrivo di un truccatore brasiliano, ospite nel suo bed and
breakfast, in città per la rassegna 'Cosmoprof', la fiera dei cosmetici e
profumi.
Il torinese
alloggiava al Grand Hotel, l'ingresso che si affaccia sulla strada dello
shopping compulsivo.
C'è un flusso
di gente, che nei pomeriggi festivi percorre via dell'Indipendenza; in giù
diretto alla stazione e indietro di nuovo puntando verso il centro. E poi da
capo, un movimento incessante, fino al tramonto. Le vetrine assorbono il fiato
di questi passeggiatori, le mani che ci si appoggiano sopra per riconoscere
un'offerta speciale.
Una folla che
forma un'etnia speciale; massicce catene stampate sul petto degli uomini e
minigonne inguinali a fasciare il sedere delle donne. Dove abitino, gli shopper
del weekend, dove vadano, quando lasciano la città, non si sa. Max dice che
salgono su dai tombini, nelle notti di plenilunio e laggiù fanno ritorno. Li
chiama 'i mostri del ciclo di Cthulhu'.
Il rettilineo
delle vetrine si interrompe in corrispondenza del Grand Hotel.
Quando arrivai,
quel pomeriggio, la passerella che accompagna la scalinata dell'ingresso era
affollata da una calca disumana. Fotografi, telecamere, giornalisti, gruppi di
adolescenti con indosso la maglietta degli Oasis. I componenti della rockband
dormivano là.
Esibii il mio
tesserino da guida. Con un inchino, i due uscieri in livrea mossero le pesanti
porte vetrate dagli infissi oro.
Entrando nella
hall, subito si è investiti da una vampata di aria coloniale. Il lampadario in
vetro di Murano getta sull'ambiente una luce sfavillante. Uno scalone ondulato,
attraversato dal tappeto di velluto rosso, come se ne vedono in certe
scenografie hollywoodiane degli anni Quaranta, sale su ai piani alti. Ma di Rita
Hayword, neanche l'ombra. Vomita a terra coppie di obesi turisti americani, in
shorts e ciabatte da spiaggia.
Mi sedetti in
una delle poltroncine decorate con le iniziali GH, addossate alla parete. Sulla
consolle, c'è uno strano soprammobile. Una forma a metà tra vaso e cuore umano,
sorretta da un piedistallo. Al centro del tavolo in stile Impero, troneggia un
bouquet di orchidee finte al profumo di rosa.
La sala era
deserta, tranne che per quattro energumeni, i bicipiti modellati sotto la
maglietta siglata STAFF, che stazionavano di fianco all'ascensore e ai piedi
dello scalone, di guardia.
Mentre
aspettavo il giornalista, sfilai una delle dieci copie gratuite di un
quotidiano nazionale e m'immersi nella lettura. Lessi dello sciopero generale
proclamato dai sindacati come protesta contro lo sgravio fiscale che la nuova
finanziaria riserva ai redditi alti. Finché l'ascensore si aprì e apparve il
torinese.
«Scusi il
ritardo», disse porgendomi la mano, grassoccia ed esangue. «Quando si viaggia,
sono sempre infinite noie. L'inferno sono gli altri, direbbe Sartre».
Non si trattava
del solito ragazzotto. Era un uomo sui cinquanta, doppiopetto, baffetti
modellati in una sagoma stile Risorgimento. Mi disse subito che non intendeva
schiodarsi dall'hotel.
«Detesto
camminare, mi perdoni, la fatica fisica. Mi muovo solo per dedicarmi a
interviste eccellenti: Paul Bocuse, Heinz Beck, Gualtiero Marchesi. Quando
davvero ne vale la pena, mi capisce». Si guardò intorno con aria da padrone.
«Ci possiamo senz'altro accomodare laggiù».
Indicava la
scrivania laccata che affianca lo scalone.
«…La metto
subito al corrente dei miei piani, signorina. Vede, sto scrivendo un libro
sull'origine e storia sociale del tortellino, gloria gastronomica della vostra
meravigliosa città. Un volume che andrà in stampa a fine anno, per un grande
editore».
Fui presa da un
attacco di panico. Cara Mika, mi dissi, prima o poi sarebbe successo, e in
questo caso, prima del previsto. Che nonostante le assicurazioni di Clizia,
l'esperto di gastronomia sarebbe arrivato. E lo avrebbe scoperto, che di
suinicoltura intingoli e gourmet, non ne sai un'acca. Che sei una guida
gastronomica sì: ma per soldi.
Mi sentii ad un
bivio. Alla fine di una carriera mai voluta, costruita sulla menzogna. Fissai
la parete davanti. Sopra è dipinta una scena boschereccia, una donna a cavallo
e il suo cane. Pensai che la donna si fosse persa.
In quel
momento, in cima alle scale, apparve un Gallagher: faccia smunta dietro enormi
lenti azzurrine, chioma divisa in ciuffi rigidi sulla nuca. Lo seguivano due
bionde dalle labbra sporgenti. Appena si venne a trovare lungo la direttrice
dell'ingresso, da fuori si levarono le urla: «Liam! You are the best!».
«Il popolino»,
disse il giornalista scuotendo la testa. «Ha ciò che si merita, non trova?».
Il Gallagher si
tolse gli occhiali da sole. Nel suo sguardo c'era una fredda indifferenza.
«Le rockstar
dei giorni nostri», commentò il torinese, «hanno la sfortuna, o la fortuna, a
seconda dei punti di vista, di essere sempre la copia di qualcuno. L'originale,
purtroppo, è scomparso da tempo... D'altra parte», proseguì, «a chi interessa
più l'originale? Mette spavento. E' qualcosa di incomprensibile. Agita le
menti. Genera inquietudine… Ecco, io voglio da lei proprio ciò che quel signore
laggiù rappresenta. Che lei si concentri, e mi dia lo stereotipo”.
Lo guardai
incredula. Lo stereotipo?
«Sì, un
resoconto dettagliato delle sciocchezze, corbellerie che circolano sul
tortellino e nel mondo ne alimentano la fama. Ciò che la gente vuole sentirsi
dire su questa specialità. Per trovarla unica, amarla, scovargli una sua
sublime poeticità».
Fantastico,
pensai, vuole da me un cumulo di balle.
«Mi sono
spiegato?» domandò.
«Certo», dissi,
«certamente».
Mi sentii a mio
agio, di nuovo nel mio ruolo.
E neppure
occorre inventare. L'aneddoto esiste già. La faccenda dell'ombelico, intendo.
Una storiella goliardico-erotica, che tutti gli abitanti della città conoscono.
Parla di un
giovane garzone di bottega che viene un giorno spedito dal fornaio suo padrone
a prendere la farina che serve per impastare il pane.
Il giornalista
cominciò a stenografare, euforico: «Benissimo! Vedo che io e lei ci intendiamo
alla perfezione!».
«Questo ragazzo
si mette in cammino», raccontai, «e raggiunta la casa del fornaio, va dritto
nel magazzino, a caccia dei sacchi di farina».
«A piedi»,
disse il giornalista.
«Be', sì».
«E d'altra
parte, in quale altro modo poteva spostarsi un povero figliolo di campagna?
Mica c'erano gli Intercity».
«Quando si
trova nel magazzino, il ragazzo cerca e non trova nulla», proseguii.
«Disorganizzazione».
«Come?».
«Vada pure
avanti. Per la sua strada che io la seguo».
«Il giovane
sale dunque al primo piano, dove è l'abitazione del fornaio».
In quel
momento, girando lo sguardo verso l'uscita, vidi qualcosa precipitare
ruzzolando nella hall dell'hotel, planare fin sotto la reception, istantaneo
come un bolide. Era un corpo femminile. Una ragazza, piccola e rotonda, t-shirt
con sopra scritto OASIS TOUR e sotto, nomi di città europee, date.
«Liam!»
strillò agganciando i jeans del Gallagher. «Liam! I love you!». Li fece scendere e scoprì una striscia di
boxer.
Lui, che non
era Liam, ma il Gallagher sbagliato, fece un giro su se stesso, pettinandosi.
Con mossa istantanea, uno degli energumeni si avvicinò e la staccò. Il
Gallagher si tolse la felpa e la lanciò nelle mani di lei.
«Next time I
will give you my pants, babe», che
la prossima volta, le avrebbe smollato le mutande.
Proseguii nel
mio racconto.
«Il giovane garzone cammina in punta di piedi sul pavimento scricchiolante della casa del fornaio, incerto su quale stanza visitare, su dove possono essere custoditi i sacchi di farina».
«Il giovane garzone cammina in punta di piedi sul pavimento scricchiolante della casa del fornaio, incerto su quale stanza visitare, su dove possono essere custoditi i sacchi di farina».
«’Scricchiolante'»,
ripeté il giornalista. «Molto bene. Questa parola è un capolavoro di banalità».
Caro torinese,
stavo per dirgli, io sono un'impenitente manipolatrice di banalità!
«Tutt'intorno
regna un silenzio assoluto, non vola una mosca», raccontai invece. «La casa del
fornaio sembra vuota. Finché arrivando in fondo al corridoio, vede una porta…».
Smise di scrivere.
Appoggiò il taccuino sulla scrivania, si allentò la cravatta. Da fuori
provenivano urla rabbiose. La felpa del Gallagher era stata lacerata. Mille
mani cercavano di accaparrarsene un pezzo.
«Scena sublime!
Impagabile! Un tempo ci si litigava le reliquie dei santi… Ogni epoca ha le sue
santità promesse. I suoi mausolei. Ma mi scusi l'interruzione. Il suo racconto
è molto interessante, sa».
«Il garzone si
avvicina alla porta», dissi. «Questa è socchiusa. Lui la spinge appena, apre
senza far rumore. E cosa vede?».
Il torinese
impugnò la penna: «Oh, uno stuolo di fotografi, giornalisti, tecnici del
suono…».
«E invece no:
vede una donna».
«Ah, naturalmente! Toujours les
femmes!».
«E chi era, se
non sono indiscreto?».
«La moglie del
fornaio».
«Ma certo. E
chi altro poteva essere, in quel luogo a quell'ora…».
«Sta dormendo.
E' distesa, abbandonata nel letto, i capelli sciolti sul cuscino. Si gira e si
rigira tra le lenzuola».
«'Abbandonata
nel letto': orrenda espressione!» disse lui stenografando veloce. «Très bien!».
«Sì, è un
sonno, il suo, popolato di incubi… Si scopre», raccontai, «le lenzuola
scivolano a terra e la camicia da notte si solleva. Il garzone la vede di
spalle, poi si volta su un fianco, e il garzone adesso la può vedere
frontalmente».
«Mm», disse il
giornalista, «era una strega o che cosa?».
«Sulla pancia
della donna c'è uno splendido ombelico».
«Apperò! Bene! Super!».
«Il garzone
torna a casa. Ma quella notte non riesce a prendere sonno. Per colpa
dell’ombelico, che l'ha turbato nel profondo».
«Autoerotismo»,
disse il giornalista.
«Non riesce a
toglierselo dalla testa. Ci pensa e ripensa finché, nel cuore della notte, ecco
che il garzone si alza».
«La masturbazione
non sempre è soddisfacente».
«Si sente
ispirato. Rapito. Inebriato».
«'Inebriato'»,
ripeté il giornalista scrivendo.
«E inventa
questo genere di pasta che nella forma rievoca appunto quella di un ombelico»,
conclusi.
«E poi?».
«Basta. La
storia finisce così».
Ci stringemmo
la mano.
«Ha fatto un
eccellente lavoro», si complimentò il torinese. «Ma davvero la pagano per
raccontare queste stronzate?».
In quel
momento, l'ascensore vomitò fuori Liam, il Gallagher giusto. Camicia safari,
frangia interrotta dai Rayban.
[dalla Guida
gastronomica]
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