sabato 27 aprile 2013

Descrizione dell’opera dell’artista Nam June Paik, esposta nella mostra ‘Nam June Paik in Italia’ – Galleria civica di Modena – fino al 2 giugno 2013



TV Candle, 1975
Stiamo parlando di un buffo coreano che nel giorno delle sue esequie, alle quali presero parte artisti come Merce Cunningham, Yoko Ono, Christo – celebrate il 3 febbraio del 2006, nella prestigiosa cappella funeraria Frank E. Campbell, sulla Madison Avenue, NY – lasciò scritto che voleva fossero distribuite delle forbici individuali, con le quali ciascun partecipante agevolmente potesse tagliuzzare la cravatta del proprio vicino. Così il caro estinto già aveva operato, nel lontano 1960, in occasione di una celebre performance, durante la quale ‘aggredì’ il musicista John Cage, non prima di avergli fatto lo shampoo.
Stiamo parlando di un tizio che nel 1965, fece esibire una violoncellista in topless - sì, proprio così! -con due microvideo spenzolanti agganciati ai seni, sul palco del Carnegie Hall, a un certo punto sostituendosi al violoncello stesso (Sextronic Cello, 1965). E l’esecuzione fu interrotta, naturalmente, Charlotte Moorman in fretta e furia fatta rivestire, accompagnata in questura. «Forse voi siete una precorritrice!» le disse il giudice, «forse tra dieci anni, queste cose, al Carnegie hall, si potranno fare!». Non ci conterei.
Parliamo dell’artista che è stato l'autore del primo programma televisivo intercontinentale, in simultanea trasmesso in Europa, America, Asia, una diretta nel primo giorno dell’anno (Good Morning Mr. Orwell, 1984). E quando gli domandarono: «Perché la Tv?», Nam June Paik candidamente rispose: «Sono un povero uomo, provengo da un povero paese, dunque sempre devo tenere presente il mio pubblico». Olè.
Lo si nomina come artista visivo, Nam June Paik, ma si fa per dire, dato che al pari dei suoi colleghi del movimento Fluxus, di pennelli, colori e tele, se ne infischia. Studia musica al Conservatorio, piuttosto, tra il Giappone e l’Europa. Parte dalla dodecafonia di Arnold Schoenberg, e va a finire coi sintetizzatori della musica elettronica; in Germania entra nell’équipe di Karl-Heinz Stockhausen. Sembra a caccia di scandalo, e invece è uno che in realtà fa sul serio, eccome.
In questa mostra, che assolutamente vi consiglio, si vuol far vedere il legame che ebbe con il nostro paese, che l’artista diceva di amare soprattutto in virtù del suo amore per la musica d’opera. «Adoro l’opera lirica», diceva, «perché in essa, come nella musica elettronica, c’è tutto: musica, spazio, movimento».
Maria Callas, 1995
Ci sono quei buffi robottini che s’inventò negli anni Novanta, assemblaggi di vecchie radio, oggetti elettronici, minuscoli monitor, impiastrati di colore, dedicati ai miti dell’opera, appunto, come il Robot 5 (1995), intitolato al big Luciano nazionale, oppure Maria Callas, con la testa a forma di altoparlante e i ferri da stiro per piedi. Detto fra noi, il ferro da stiro non so se alla divina sarebbe piaciuto…
Camminando da una sala all’altra, vengono in mente le riflessioni che Nam June Paik sempre s'è fatto sul rapporto Oriente/Occidente (Young Buddha on Duratrans Bed, 1989-1992), laico/ religioso. Sacro e Profano, per esempio, 1993, mostra una provocante signorina nuda che ammicca facendo capolino oltre due monitor televisivi, mentre sopra di lei, nella stessa posa, se ne sta distesa una serafica divinità orientale.
A proposito di sacro e profano, tengo a ricordarvi che a questo burlone performer, armato della prima telecamera lanciata sul mercato dalla Sony, venne l’idea di filmare il traffico di New York, nei convulsi giorni che accompagnarono la visita di papa Paolo VI (Café Gogo, 1965). Per quelli di voi ai quali interessano i primati, corre leggenda che si tratti del primo video d’arte della storia.
Le opere dedicate all’Italia, alla sua geografia turistica, sono dei piccoli monitor dalle cornici scintillanti, oltremodo trash, incastonate di pietre, con l’antenna da insetto meccanico ficcata in cima. Contengono simboli orientali, figurine di personaggi famosi, stereotipi. C’è una Venere botticelliana, per esempio, la conchiglia-piedistallo che le si apre sotto i piedi, il golfo di Napoli sullo sfondo, che ha la faccia del segretario di stato americano (Hillary Clinton, 1997).
A proposito di Hillary, bisogna registrare un aneddoto, davvero spassoso. Nel 1998, Nam June Paik – già famoso, Leone d’oro alla Biennale del 1993 - in occasione di una cena ufficiale, fu invitato dai Clinton, alla Casa Bianca. L’artista, che si muoveva all’epoca in carrozzella, decise di presenziare alla cerimonia servendosi di un deambulatore, che riteneva ausilio motorio più dignitoso e consono alla formalità della situation. Si racconta che all’improvviso, mentre faceva per stringere la mano alla First Lady, i pantaloni gli scivolarono giù, scesero fino alle ginocchia, e che sotto fosse praticamente nudo. La Clinton andò su tutte le furie, of course. Un affronto politico? Il re è nudo, appunto? Una fatalità? Non s’è mai saputo.
E il bello sta proprio lì: con Nam June Paik, non si sa mai dove si va a parare.
Eppure l’opera che io preferisco di questo artista provocatore, e che ho ritrovato esposta, è uno dei lavori più delicati e poetici nei quali, ragionando di arte contemporanea, mai mi sia imbattuta. È una scatola televisiva, niente poco di più che un involucro vuoto, di un vecchio apparecchio degli anni Sessanta, che al suo interno custodisce un’esile candela accesa (For Philip, 1975). Philip Corner, il pianista al quale l’artista la regalò, racconta che quel giorno, ricevendolo nel suo loft newyorkese, Nam June Paik gli indicò una gran massa di carcasse televisive, che teneva ammucchiate  in un angolo, e gli disse: «Scegline una. Poi, a casa, mettici dentro una candela». «Che tipo di candela?» disse Corner. «Una qualsiasi», disse Nam, «basta che sia accesa».
Ecco, per me, in quel ‘basta che sia accesa’, c’è il cuore di ciò che Nam June Paik ci ha voluto dire.




 
 

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