Il 14 maggio 1931 Arturo Toscanini
è invitato al teatro comunale di Bologna, a dirigere un concerto in memoria di
Giuseppe Martucci, emerito direttore d’orchestra della città. In prima fila, in
platea, siedono il ministro Costanzo Ciano e il funzionario Leandro Arpinati.
Al cospetto dei due gerarchi fascisti, al direttore viene impartito l’ordine di
eseguire Giovinezza poi l’Inno reale. Quello di ripetere gli inni
fascisti prima dei concerti fa parte del protocollo. «No», dice Toscanini.
Getta la bacchetta a terra. Lascia il palcoscenico. In teatro è scompiglio
generale. All’ingresso laterale ci sono delle camice nere che lo aspettano.
Schiaffeggiano Toscanini. Il maestro si precipita all’hotel Brun. «Deve
lasciare subito la città», ordina il federale Mario Ghinelli, «altrimenti
rischia grosso. La pelle, per la precisione». La sera stessa, il compositore
bolognese Ottorino Respighi lo accompagna in stazione e mette sul primo treno
in partenza per Roma. Il 19 maggio, all’unanimità, l’Assemblea regionale dei
professionisti e artisti dichiara: «Deploriamo il contegno assurdo e
antipatriottico del maestro Arturo Toscanini». È a quel punto che il direttore
scrive a Benito Mussolini in persona. Sì, avete capito bene: Toscanini, su
tutte le furie, scrive una lettera di ferrea protesta indirizzata direttamente
al Duce. Poi lascerà l’Italia, i fatti andranno come sappiamo. Eppure, non so
voi, ma a me l’immagine di Arturo Toscanini, seduto alla scrivania, intento a
comporre una lettera di lamentele al nano dittatore, mette di buon umore.
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