domenica 10 febbraio 2013

Descrizione della regia al Macbeth di Verdi ad opera di Robert Wilson, allestimento del teatro comunale di Bologna, direttore d’orchestra Roberto Abbado – teatro comunale di Bologna – febbraio 2013

Non c’è alcun castello di Macbeth. La casa del cattivo eroe è la notte immobile e blu, desertata dagli oggetti. Perché due sole cose contano nella notte: gli uomini e la luce.
La luce illumina gli uomini e ce li fa vedere come per davvero sono, qual è la loro anima.
Non può che essere spietata, la luce. Brutalmente scopre una faccia, strappa un gesto dall’oscurità. La luce è basica, cristallina nel significato che fa riemergere: bianco accecante quando parla della smania di potere, rosso rubino quando parla di morte.
C’è un Macbeth-samurai senza onore, tronfio e compresso nell’armatura, con un bizzarro copricapo cornuto calcato in testa, nel primo atto. E c’è Lady Macbeth, geisha crudele che il kimono rigido più che aspirante sovrana, trasforma in eroina spaziale.
Le loro facce sono maschere coperte di cerone bianco, marcate dal trucco pesante degli attori del teatro kabuki. Shakespeare, sono sicura che avrebbe approvato; Verdi, non so.
Ci sono le streghe, gli incappucciati provenienti dall’oltretomba che tra le mani reggono degli strani misteriosi oggetti. Li voltano verso di noi e d’un tratto si capisce cosa nascondono dentro: uno scoppio di luce segmentata, un riflettore che acceca. Luce, luce, dunque. Le profezie possono far scoppiare il cervello: lustrini e morte.
E ancora, ci sono due strisce al neon di luce bianco incandescente che man mano cambiano di posto, nel buio del palcoscenico. Si spezzano nei lampi del temporale sul bosco, poi sono gli stipiti di una porta che Macbeth mai varcherà, oppure ancora sono i lati del tavolo del banchetto più spettrale e folle nel quale mai la storia del teatro ci abbia catapultato.
C’è la luna ogni tanto, che si assottiglia, si riempie, si muove su stessa. E un gigantesco parasole arancio che ruotando rotola sulla scena, e lì si capisce il colossale abbaglio, perché il sole di notte non c’è, è chiaro.
Gli incubi da sveglio di Macbeth sono la sedia sospesa sul tavolo del banchetto, alias spettro-di-Banco e gli otto scheletri-burattini, messi in fila, in ordine d’altezza decrescente, perfino, a spenzolargli alle spalle, ovvero gli spiriti dei predecessori che senza troppi complimenti ha fatto fuori.
Lady Macbeth, algida, che gli dice: «Voi siete demente!» è in assoluto la Lady più stilizzata nella quale ci si possa imbattere nella vita. E sfido Madama Butterfly a dire il contrario. Sfido Akira Kurosawa, anche, che pure del Macbeth si era appassionato.
La scena, bellissima, sempre, della macchia che non c’è, con Lady Macbeth che si sfrega e dice: «È qui tutt’ora… via, ti dico, o maledetta!» è tutta un oceano nero poi il rosso sangue attaccato allo sfondo, e in quel momento, pensi che niente al mondo, davvero niente dica il sentimento della colpa (o la colpa come sentimento) come quella macchia.
La frase di Macbeth, alla morte di Lady: «La vita, che importa?... È solo il racconto di un povero idiota», Bignami di Shakespeare che arriva all’improvviso, va insieme alle mani inondate di luce dell’uccisore, e in quel gesto bloccate ormai per sempre.
Tutto è statico come solo la fine della vita. Nemmeno la foresta si Birna si muove verso l’usurpatore.
La sua trappola, Macbeth, se l’è costruita da solo, l’ha scavata dentro di sé. È il suo ego. By bye love, bye bye happiness.
 

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