Westkapelle, Holland, 1971, foto a colori |
C’è la storiella che si racconta,
di un Jan Bas Ader bambino che per l’intero semestre, a scuola, componeva i
suoi disegni su di un unico foglio, cancellando poi le figure, per far posto
alle nuove, a loro volta cancellate così che il foglio alla fine sempre vuoto
era. Come dire: «Quel che m’interessa è dare forma alla mia idea. Quando l’idea
sulle sue gambe cammina, chi se ne frega della forma».
Chi se ne frega dell’arte? dice
l’arte e tutto quel che ha fatto nella sua breve vita Jan Bas Ader. Questo
ragazzo è il più grande artista concettuale al quale l’Olanda abbia dato i
natali e della sua arte, unico incontrastato protagonista.
C’è un video, per esempio, nel
quale Jan Bas Ader sta in piedi, le braccia parallele, al centro di una strada
lastricata che attraversa un parco, e sullo sfondo vediamo il faro di Westkapelle, quello
del celebre dipinto di Piet Mondrian (Westkapelle,
Holland, 1971). Jan cerca di rimanere dritto, ma poi solleva un piede; finisce
che perde l’equilibrio, ruzzola a terra. Altroché eliminare la direttrice diagonale,
perpetua ossessione di Mondrian. Altroché scacciare ‘il predominio del tragico
nella vita attraverso l’arte’. Guardare il tragico come si manifesta nella
vita, semmai, dice Jan, con effetti che, non crediate, possono perfino essere
esilaranti.
C’è Jan Bas Ader su una roccia, e
dietro di lui il mare in tempesta, Jan che mostra il cartello ‘Fire’, una
specie di Monaco in riva al mare alla
C.D. Friedrich ma in una versione allarmistica che fa sorridere (Untitled – The elements, 1971). E viene
in mente la definizione che Jean Baudrillard diede dell’ironia, quando disse
che è ‘unica forma spirituale del mondo moderno’. Ha ragione. Ci si ricorda
della fierezza con la quale, oltre quattro secoli prima, Albrecht Dürer si era autoritratto
(Melancholia I, 1514) e bene si
capisce il destino sfigato dell’intellettuale oggi. Platonismo addio. Ingegnarsi
su come stare a galla palleggiando i propri pensieri.
Untitled, The elements, 1971, foto a colori |
Lo stesso uomo piange, in un
video, immobile; la telecamera spietata inquadra la faccia umida di lacrime, le
smorfie di dolore che la contraggono. Eppure non ci sono lamenti, il video è
muto. Questo è il mio atroce dolore, e lì niente c’è di concettuale (I’m too sad to tell you, 1971).
E niente c’è di concettuale nella
scritta gigante che campeggia sul muro della galleria, cancellata per metà, per
un attacco di dignità, forse; ‘Please don’t leave me’, dice. Sto da cani, hai
capito? Le mie parole sono lì che te lo dicono. Le parole sono tutto quel che
ho per dirtelo.
Poi c’è l’uomo-che-cade. Dal
tetto di una house americana, dove se ne stava acrobaticamente seduto su una
sedia. Da una bici che devia, lungo una strada di Amsterdam, e va a finire giù dritta
in un canale. Dal ramo di un albero, al quale l’uomo si è aggrappato, per
lasciarsi andare nell’acqua di sotto (Fall
I, Fall II, Broken fall - organic, 1975). E lì c’immaginiamo Mack Sennett,
che una sera se ne vada a cena con Samuel Beckett, per esempio. Voglio dire, mica
c’interessa chi dei due pagherà il conto, no di certo.
C’è che la vita degli uomini è
costellata di micro/macro naufragi. A bordo di un cargo che affondò al largo della
California, Jan Bas Ader dall’Europa raggiunse l’America, che aveva scelto come
patria d’elezione. E su una barca a vela di pochi metri affondata nell’oceano
Atlantico, s’interruppe la sua vita mentre dall’America tentava il ritorno in
Europa. Molto romantico, direte voi, ma quell’impresa folle, perché? Per
portare a compimento una performance che s’intitolava, pensate un po’, In search of the miraculous. No,
pensateci. Era il 1975.
E infine dico: come si fa a non
adorare un ragazzo che il giorno delle nozze, combinate con la gentile consorte
in quel di Las Vegas, si presenta all’altare con tanto di stampelle?
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