«Io sono d’accordo con Andy
Warhol», dico, «quando dice che l’arte nasce da uno spazio vuoto». «Penso
adesso ci pensi?» dice Zelda. Siamo dentro un bar, c’è un gran casino, tutti
appresso al loro smartphone di merda. «È questo teatrino, capisci, reale e
virtuale, il meccanico consenso, lo sproloquio di parole, sono le adulazioni,
le calunnie, il far finta di, è l’esibizionismo, il parlar di sé… Tutto questo
mi fa soffrire… Bisogna fare il vuoto per fare arte, disse Andy Warhol». Zelda
si sistema il cappello col fiore di lana cotta. Coi cappelli sta da dio, Zelda.
«Io penso anche», dico, «come scrive Parise, che per fare dell’arte non bisogna
fare dell’arte». Così lei mi guarda, tira un sospiro di impazienza. «Va bene»,
dice, «ma l’arte chi se la fila, eh? Trovami uno solo in questo bar che si fili
l’arte! Nessuno! Si filano il teatrino, il fottuto teatrino!».
So.
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