lunedì 28 gennaio 2013

Col giornalista gastronomico in visita al museo archeologico

Le guide ai giornalisti gastronomici s’infittivano. Ero l’unico referente delle Sgambate Guide Combattenti sulla città.
Incontrai un ragazzo dalla capigliatura rossa; completo verde su camicia salmone. Calzava scarpe dalla punta squadrata.
«Italiane», disse con orgoglio. «Comprate al duty free».
Era atterrato quella mattina, proveniente dal Galles. Gli chiesi com'era andato il viaggio.
«Prosciutto e melanzane alla parmigiana», replicò.
Era decisamente di buon umore. Sorrideva a chiunque ci venisse incontro, lungo il tragitto che dall'hotel Holiday conduceva in piazza.
Decisi di approfittarne per rispolverare un po' le mie conoscenze di arte antica.
«Che ne dice di fare un salto al museo archeologico?» domandai.
«Ottima idea», rispose.
Su piazza Maggiore c'era una competizione sportiva. La pista si annodava su se stessa a spirale. Gli spettatori si accalcavano alle transenne agitando bandierine con sopra i nomi degli sponsor. I numeri appiccicati sulla schiena, si sgranchivano le gambe prima dell'inizio della gara. Un altoparlante sparava Freddy Mercury che cantava We are the champions.
«Devono smaltire tutto quello che mangiano, eh», disse il gallese. Sbirciava i maratoneti più corpulenti e panciuti.
«Può darsi», dissi.
Ma questo museo è lontano?» s'informò.
«Proprio girato l'angolo». Dopo pochi minuti eravamo nell'atrio.
Posto davanti alla biglietteria di un qualsiasi esercizio pubblico, il giornalista gastronomico viene di solito preso da un attacco di panico. Questo luogo è infatti nel suo immaginario una specie di bocca spilladenari. Lo coglie la paura che di tasca propria debba pagare per l'ingresso. A differenza dei cibi e delle bevande, il costo del biglietto non è infatti incluso nel rimborso spese che la Provincia gli concede. La cosa che occorre fare e all'istante è senz'altro rassicurarlo.
Tranquillo! bisogna dirgli, il museo è gratuito! Ci si può godere tre piani d'esposizione di anfore, ossari e fibule senza scucire un quattrino! La bigliettaia, l'han messa lì per vendere i cataloghi e le cartoline… Non per niente la città è stata eletta nel Duemila capitale europea della cultura. Perché i giornalisti gastronomici che se ne vanno a scrocco per le sue strade, oltre che il cibo, possano a gratis sbafarsi anche pietrate di archeologia!
Vidi che tirava un sospiro di sollievo. Non così profondo e liberatorio come quelli che i giornalisti cacciano fuori seduti al tavolo di un ristorante tipico, per la verità. Scroccare un bifacciale in pietra dà meno soddisfazione che sbafarsi una punta di vitello. Ma comunque, sembrava di nuovo rilassato.
Sbirciò la bigliettaia, intenta a stendersi lo smalto sulle unghie. Si chiama Michela. E' una ragazza dal viso angelico. Non l'ho mai vista fare nient'altro che spennellarsi le unghie. La salutai.
«C'è movimento?» domandai sarcastica.
«Il solito maniaco che telefona a metà mattina».
Eravamo gli unici nella sala.
«Le due opere che c'interessano», cominciai, «sono proprio qui. Questa di sinistra è una stele del primo secolo avanti Cristo. Raffigura un allevatore di maiali con i suoi animali. Quella di destra, del secondo secolo dopo Cristo, mostra invece un oggetto».
Il giornalista mosse qualche passo.
«Cos'è?» domandò scrutando il bassorilievo.
«Un mortaio. Ci si metteva dentro la carne tritata», raccontai, «dopo che già era rimasta a marinare in un composto di aceto, pepe, chiodi di garofano. Poi si aggiungeva la cannella, la noce moscata, lo zenzero e il cumino. E con questo ripieno, si insaccavano gli intestini dei maiali».
La ricetta tradizionale della mortadella, mi aveva detto Clizia, bisogna che te la impari. Tanto per raccontare qualcosa, s'intende. Sappiamo bene che l'insaccato che ci propinano oggi è un surrogato della gomma, ma carissima, quello che conta nel nostro mestiere, mi aveva spiegato Clizia, è la capacità di creare suggestione. Soprattutto, si era raccomandata, insisti sulla presenza delle spezie; l'oriente fa sempre un certo effetto.
«La mortadella, ha presente?».
«No», disse lui.
«Quella rosa a pallini bianchi».
… Rosa a pallini bianchi, scrisse.
«La parola 'mortadella' deriva proprio da mortaio».
«Ah sì?».
«Già».
Mi sentii stranamente fiera di avergli trasmesso quella notizia veritiera.
Salutammo Michela intenta a cancellare un'unghia venuta male, e ci avviammo verso il Tempio della Mortadella.
[dalla Guida gastronomica]

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