«Hey little girl is it good to you», canto,
«can you do all the things that I can do ooh...». Bruce Springsteen, io lo
detesto. Solo in due circostanze canto Bruce Springsteen: quando mi assale un
attacco di sfrenata ironia oppure per abissale masochismo. Masochismo, in
questo caso: il suo nome è Pier Luigi Bersani. «Ho scelto la canzone di
accompagnamento alla campagna elettorale del Pd», dice Bersani. E va bene. «È
una canzone molto bella. Di Gianna Nannini», dice. E va bene, anche sotto un
profilo estetico, intendo. «S’intitola ‘Inno’», dice Bersani. […] Come? Inno?!
Tipo una roba patriottica? S'intende la celebrazione a qualcosa? Una dedica solenne? Ai
politici? Al popolo che è sovrano? Alla democrazia televisiva? Agli ultimi anni di straordinaria
fioritura culturale? Che noi siamo, per dire, i figli dei fiori della nazione? Bersani,
darling, ma chi è il genio della comunicazione del Pd? Ma l’hai capito che gli
italiani, il parlamento, emiciclo ligneo compreso, lo deporterebbero a spalar letame
in Africa? Che la parola ‘politica’, in questo preciso momento storico, sa per
tutti più di sterco che di salame piacentino? Bersani, ascoltami, per piacere: questa
è la voce di un’elettrice tua conterranea che alle primarie ha votato Matteo Renzi:
ripensaci. Scegli un’altra canzone, un titolo qualsiasi ma più consono alla furia cieca,
al desiderio di rivolta sociale. «Bersani», canto, «I got a bad desire».
So so so.
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